Antonio R. Daniele
Nuovi modernismi. Scrittori italiani-traduttori: Gianni Celati e l'Ulisse

 

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Sommario
I.
II.
III.
Prolegomeni: l'«Ulisse» in Italia fra "questione della lingua" e ricezione modernista
Celati, la lingua e le soluzioni "massmediali"
L'infedele Celati: una "questione privata"


 

§ II. Celati, la lingua e le soluzioni "massmediali"

I. Prolegomeni: l'«Ulisse» in Italia fra "questione della lingua" e ricezione modernista

Sciolto il vincolo dei diritti d'autore (gennaio 2011) la celebre giornata di Leopold Bloom si è offerta ai nuovi tentativi di traduzioni italiane. Abbiamo registrato, in pochi mesi, l'edizione Newton Compton con la traduzione di Enrico Terrinoni e Carlo Bigazzi1 e la recentissima operazione editoriale di Einaudi che ha promosso la versione di Gianni Celati.2 Se, come denunciò Leslie Fiedler ormai quasi quindici anni fa, «il movimento letterario che abbiamo deciso di chiamare "modernismo" [...] è morto» e «viviamo un momento in cui il modernismo non è più una via percorribile per i giovani scrittori e i giovani lettori, o anche per quel che ancora c'è di giovane e di vivo nei vecchi scrittori e nei vecchi lettori»,3 tali novità potrebbero smentire in parte quella sgradevole notizia.
La storica traduzione di Giulio De Angelis, che ha garantito il capolavoro ai lettori italiani per oltre mezzo secolo, ebbe, come si sa, un percorso problematico. Qualche anno fa abbiamo potuto prendere atto4 dello strato filologico alla base del lavoro condotto dal traduttore incaricato da Mondadori, ma anche della preziosa - e in qualche caso decisiva - opera di revisione di Glauco Cambon, Carlo Izzo e Giorgio Melchiori, all'epoca affiancati in équipe a De Angelis anche per ragioni di cautela, viste le obiezioni e le polemiche che andava suscitando fra eminenti anglisti l'individuazione di De Angelis per la prima impresa italiana sulla traduzione dell'Ulisse. È stato rilevato - sulla scorta della corrispondenza dello stesso De Angelis che l'omonimo Fondo ha portato alla luce e consegnato all'Archivio Bonsanti del Gabinetto Vieusseux - che i revisori intervennero soprattutto nei primi capitoli, depurando la traduzione dei toscanismi che l'autore vi aveva disseminati (ma senza mancare, a loro volta, di introdurne alcuni nelle ultime parti dell'opera).5 Dopotutto, eravamo alla vigilia dell'ultimo, importante snodo sulla nostra "questione della lingua", rinfocolato da Pasolini col testo apparso su «Rinascita».6 Ma il criterio che guidò il gruppo mondadoriano era ancora abbastanza vicino al dibattito postunitario, benché la preferenza per le soluzioni "sovraregionali" riflettesse le condizioni imposte dal medium televisivo. Era stato proprio Pasolini, all'indomani della pubblicazione, a incoraggiare una lettura di quella traduzione in direzione gaddiana. Ne aveva fatto, anzi, lo strumento di giustificazione dei suoi romanzi "di borgata":

«In Italia Joyce ha avuto, e ha, il suo grande equivalente in Carlo Emilio Gadda, che non è detto gli sia, in concreto, inferiore. Il monologo interiore - il pensiero incessante del personaggio o dei personaggi, attraverso cui è visto l'ambiente, e in definitiva, il mondo - mentre in Proust era l'oggetto indiretto del racconto, ed era quindi a suo modo oggettivo, in Joyce - e in Gadda - facendosi mimetico, produce un grande sommovimento linguistico. [...] Joyce [...] è entrato non nel suo io ma nell'io di un altro uomo, diverso da lui psicologicamente e socialmente: non ha detto cioè né egli fece, egli andò,io feci, io andai, ma qualcosa che sta in mezzo: la mimetizzazione, la ricostruzione in laboratorio della corrente di pensieri di un altro essere umano studiato nella sua personale realtà. [...]
Con Ragazzi di vita e Una vita violenta [...] io mi sono messo sulla linea di Verga, di Joyce e di Gadda e questo mi è costato un tremendo sforzo linguistico. [...] Mimare il linguaggio interiore di una persona è di una difficoltà atroce, aumentata dal fatto che nel mio caso [...] la mia persona parlava e pensava in dialetto. Bisognava scendere al suo livello linguistico, usando direttamente il dialetto nei discorsi diretti, e usando una difficile contaminazione linguistica nel discorso indiretto: cioè in tutta la parte narrativa, poiché il mondo è sempre come visto dal personaggio».7

Circa un decennio prima dell'edizione integrale dell'opera, la milanese Cederna ne offrì un assaggio pubblicando il terzo episodio del romanzo in allegato alle Poesie da un soldo. La traduzione fu curata da Alberto Rossi e testimoniava il crescente interesse delle piccole case editrici per gli autori modernisti. Sara Sullam ha scritto di recente che la serie di versioni in italiano degli scrittori inglesi, incominciata nei primi anni Sessanta, fu dovuta alla necessità di «una nuova traduzione più vicina alla sensibilità»8 di quegli anni, e ha intravisto nella bachtiniana "riaccentuazione" il motivo principe del fenomeno; ma la "situazione storica" che sarebbe stata all'origine di queste operazioni editoriali doveva possedere caratteri in grado di superare gli eventi di puro rilievo sociale e attestarsi all'altezza di tutto quel materiale linguistico e sublinguistico che radio, cinema e televisione sottoponevano a persistenti mutamenti. Importanti studi coevi hanno ben documentato l'incidenza dei media sul carattere della lingua consegnataci dall'Italia unita, la loro ricezione e anche la percezione che la classe colta aveva della lingua stessa. Nel nostro caso preme soprattutto rilevare la progressiva attenuazione dell'area toscana - e fiorentina in specie - nell'orizzonte linguistico del Paese. In un noto saggio del 1963 Tullio De Mauro, avvalendosi degli studi di Bruno Migliorini e Ornella Fracastoro Martini,9 testimoniò che:

«non trova[va]no credito le particolarità di pronunzia fiorentine, se non come elementi di caratterizzazione dialettale a fini umoristici. [...] Come giustamente è stato osservato, la radio (ma ciò vale anche per cinema e televisione), non crea di suo arbitrio ma «asseconda le tendenze della lingua comune»,10 e queste, dall'unità in poi, non si elaborarono più nei centri quieti e appartati della Toscana, ma altrove, nei grandi centri economici, demografici, politici e intellettuali del paese, a Torino, a Milano e a Roma. Qui [...] sono partite le correnti sociologiche che hanno sommosso e rinnovato le condizioni linguistiche del paese. Qui [...] una lingua che per secoli era stata dominio geloso di una minoranza è diventata lingua alla portata di tutti, ed è stata avviata verso un parziale rinnovamento delle sue strutture, non soltanto fonologiche, ma morfologiche, lessicali, sintattiche e semantiche».11

L'azione di radio, cinema e televisione giungeva a un approdo diverso da quello pasoliniano, pur muovendo nella medesima direzione. Da ciò appaiono più comprensibili le ragioni che ritardarono fino al 1960 la prima edizione definitiva dell'Ulisse "italiano". Alberto Rossi aveva cominciato a tradurre l'opera sin dai primi anni Trenta, ma sia che in Italia a quell'epoca Joyce fosse identificato quasi solo come uno scrittore che tentava faticosamente di divincolarsi dalla «brutalità naturalistica»,12 sia le incertezze nel reperimento di un traduttore convincente allungarono i tempi e rimescolarono più volte le carte. Né era chiaro dalle nostre parti quali fossero i caratteri del modernismo di lingua inglese e joyciano. Il frammentismo e tutta la "metafisica della modernità" compressa fra i futuristi e i solariani fiorentini, nonostante le traduzioni promosse in quegli anni e la frequentazione con qualche nome delle nostre lettere, ci resero un quadro impreciso della tempra letteraria dei nomi che solitamente rientrano nel canone modernista. L'opera di divulgazione del grande irlandese, realizzata fra le due guerre da Enzo Ferrieri, direttore di «Convegno», si fondava su uno storico e troppo vigoroso slancio poundiano. Buona parte della vulgata del modernismo joyciano è dovuta alla convivenza di una passione per gli itinerari poetici anglo-americani con le "turbolenze" italiane. Serenella Zanotti, pur dando il dovuto riconoscimento a Carlo Linati e alla sua propaganda modernista, ha opportunamente chiarito che egli «as a critic, he played a key role during the interwar years by introducing the Italian public to experimental literature in English language, but he did so without much conviction. His openness and curiosity about contemporary foreign literature coexisted with his attachment to local myths and his cult or form and traditions».13Un paio di anni fa Francesca Di Blasio ci offrì un utile censimento di alcune riviste italiane fra le due Guerre che si dedicarono ai modernisti anglofoni, dal quale otteniamo ulteriori conferme sulla parzialità delle prospettive critiche diffuse in Italia: «si ha la sensazione» - scrive Di Blasio, dopo lo spoglio di articoli dal «Baretti», ma anche da «Maestrale» e dalla «Fiera Letteraria» - «che la voce critica resti a margine della consapevolezza estetica, quasi a descrivere un fenomeno che si conosce ma non si comprende, il che porta a interrogarsi [...] sulle modalità di penetrazione delle istanze del Modernismo in territorio italiano».14
Ha agito per molto tempo la sovrapposizione fra "modernità borghese" e "modernità estetica", già affrontata da Matei Calinescu,15 con la netta prevalenza, in terra italica, della prima sulla seconda. Sul finire degli anni Ottanta Giovanni Cianci precisò, in un memorabile volume, che «il termine "modernismo" si è imposto nella critica inglese a significare quello che altrove, e soprattutto nella nostra cultura, è chiamato avanguardia storica».16 La spinta di quest'ultima e le resistenze a essa hanno segnato il dibattito italiano fra i due conflitti, producendo una "sacca" per certi versi impermeabile. Non a caso l'introduzione dell'edizione Cederna, realizzata dal traduttore stesso, in prima battuta insisteva sui debiti del modernismo di Joyce colle avanguardie o col Vorticismo. Naturalmente dei nessi vi sono stati, ma la riduzione del tutto alle istanze futuriste, fino a giudicare - come Rossi fece - «il Joyce come il solo "parolibero" che sia giunto a concreti risultati d'arte», sviluppando la "materialità" marinettiana per approdare a «effetti liricamente evocativi»,17 trascura l'enorme novità che l'opera ha introdotto "in proprio" e il bagaglio autonomo di cui Joyce aveva mostrato di disporre sin da I morti di Gente di Dublino, dove la nota epifania di chiusura rivela una profondità di prospettive narratologiche che il solo simbolismo non può spiegare. L'accostamento in "pocket" di Proteo coi Pomes Penyeach denotava, oltre alla necessità editoriale di realizzare un prodotto più facilmente spendibile di quanto potesse esserlo con le sole tredici liriche, anche l'inclinazione culturale a una semplificazione della figura joyciana, probabilmente favorita dall'obbligo di saziare quel «digiuno d'inglese» in Italia che Aldo Camerino lamentò ancora a metà degli anni Cinquanta.18 Nonostante in apertura Alberto Rossi si proponesse di non finire irretito nel dittico crociano "poesia-non poesia", ci pare che non abbia saputo tenere a distanza di sicurezza il rischio del comparativismo di maniera pur di giustificare una linea di continuità fra l'opera in versi e quella in prosa, di rendere meno artificioso l'inserto del terzo momento dell'Ulisse, sintomo, più che altro, di una laboriosa attività che trovava un confine nel primo segmento del romanzo.

 

§ III. L'infedele Celati: una "questione privata" Torna al sommario dell'articolo

II. Celati, la lingua e le soluzioni "massmediali"

Proprio l'episodio che chiude la Telemachia, e che ha già sollecitato qualche studioso in raffronti fra le traduzioni disponibili, è un crinale importante anche per Gianni Celati. Lo scrittore ne vede il momento in cui lo stream of consciounsness invade l'opera, in fondo il punto in cui il romanzo ha inizio,19 e di conseguenza, il momento nel quale il suo stesso lavoro ha dovuto meglio precisarsi. Il programma celatiano sembra convergere in una sorta di liberazione delle parole, un affrancamento della lingua, poiché «non è importante capire tutto».20 Scorrendo con attenzione il faticoso prodotto che ha impegnato il traduttore lungo sette anni, emerge un dato significativo, aldilà dell'assenza di apparati, già sufficientemente rilevata, in qualche caso con toni inadeguati. A Celati va il merito di aver ripristinato, in lingua italiana, il sostrato ritmico del testo originale. Per raggiungere un simile obiettivo, egli ha dovuto - per così dire - gareggiare col livello del significante, condurlo fino alle secche e sfruttarne tutte le possibilità armoniche. Qualcosa che la resa della "sessantana" di De Angelis non poteva ottenere, così ben disposta allo "standard" e all'idiomatismo toscaneggiante (al quale era stato affidato il compito di rendere quasi tutto il ventaglio dei "particolarismi" joyciani). Celati opta per un "neostandard" non sistematico: si tratta di una scelta fintamente omologante poiché non raduna tutti i lettori. Ecco un esempio tra i più significativi:

«Il suo passo rallentò. Qua. Ci vado o non ci vado da zia Sally [sic!]? Voce di mio padre consustanziale: l'hai mica visto di recente tuo fratello Stephen, l'artista? No? Sicuro che non è giù in Strasburg Terrace da sua zia Sally? Non potrebbe aver qualche meta più elevata, dico io? E allora allora allora dìcci tutto Stephen, come sta lo zio Si? Cristo d'un Dio, guarda qua con che famiglia mi sono incastrato, sposandomi! I ragassi son su in la sofita. Quell'ubriacone d'un contabiluzzo e suo fratello suonatori di cornetta. Proprio bei stornellatori da gondola! E Walter cogli occhi strabuzzati che chiama «capo» suo padre, niente di meno. Sì capo, no capo. Dicono che Gesù ha pianto: per la Madonna, non c'è da meravigliarsi!». (Celati, 2013, p. 52)

«Rallentò il passo. Eccoci. Vado o no da zia Sara? La voce di mio padre consustanziale. Hai più visto ultimamente tuo fratello Stephen l'artista? No? Non sarà mica a Strasburg terrace con zia Sally? Non potrebbe trattarsi un po' meglio?, eh? E eee dicci un po' Stephen, come sta zio Sì? Dolentissimo Dio, a che razza di cose mi sono legato col matrimonio. Racazzini in zoffitta. Quel merciaio ambulante ubriacone e suo fratello il suonatore di cornetta. Onoratissimi gondolieri. E Walter con gli occhi torti che dà del signore al padre, niente di meno. Signore. Sissignore. Nossignore. Gesù si dolse: e non c'è da stupirsene, per Cristo!». (De Angelis, 1960, p. 56)

La costante progressione verso il soliloquio, specie quando chi parla suggerisce al lettore di inferire la presenza di un interlocutore, acquista, nella traduzione einaudiana, un ritmo via via incalzante che Celati sostiene con la scelta di bisillabi e doppie («allora allora allora dìcci tutto») e un inserto colloquiale mutuato dal cinema americano, segno di un impianto lessicale disinvolto. «Cristo d'un Dio» è la ben nota esclamazione del sergente maggiore Hartman, il capo istruttore in Full Metal Jacket di Stanley Kubrick,21 pellicola cult del grande schermo che qui si riflette nel campo semantico da caserma oltreoceano («E Walter cogli occhi strabuzzati chiama "capo" suo padre, niente di meno. Sì capo, no capo»). Celati interviene con elementi neostandard là dove De Angelis dovette cedere a un registro "di struttura" («ci vado o non ci vado da zia Sara?»/«vado o no da zia Sara?»; «Cristo d'un Dio, guarda qua con che famiglia mi sono incastrato, sposandomi!»/«Dolentissimo Dio, a che razza di cose mi sono legato col matrimonio»; «Quell'ubriacone d'un contabiluzzo e suo fratello suonatori di cornetta. Proprio bei stornellatori da gondola»/«Quel merciaio ambulante ubriacone e suo fratello il suonatore di cornetta. Onoratissimi gondolieri»; «Dicono che Gesù ha pianto: per la Madonna, non c'è da meravigliarsi!»/«Gesù si dolse: e non c'è da stupirsene, per Cristo!»), ma non disdegna curiosi regionalismi («i ragassi son su in la sofita») con un esito molto più riuscito, per tono e simmetria, della parodia dell'immaginario teutonico voluta dai precedenti traduttori (De Angelis: «Zacazzini in zoffitta» e ancor prima Rossi: «I racazzi su nel cranaio»)22 e anche dal quello più prossimo: Terrinoni e Bigazzi rendono con uno stereotipo non meno affermato: «Ragatsi tstare in fienile».23
Proprio l'edizione Newton Compton si colloca, tutto sommato, in posizione intermedia. Pur senza risparmiarsi picchi popolareggianti, gergali e in qualche caso autenticamente triviali i quali, come ha scritto Dario Fertilio, nell'intenzione di Terrinoni e Bigazzi devono restituirci la «matrice iniziale, tipicamente irlandese, con un'infinita serie di allusioni a ballate, canzoni e operette»,24 nei passaggi in cui la speditezza joyciana autorizzerebbe qualche eccesso, il traduttore predilige le soluzioni mediane («ci vado o no dalla zia Sara?»; «Hai visto per caso di recente quel tuo fratello artista, Stephen?»; «non poteva puntare un po' più in alto?»); proprio dove - insomma - quel famoso "socialismo" che a Terrinoni stesso pare tra gli aspetti prevalenti del romanzo, dovrebbe tradursi in uno spazio verbale sempre aperto, esso decanta. D'altra parte il "modernismo sociale" dello scrittore irlandese non può identificarsi tout court nella licenziosità della prosa, poiché vivifica nell'uso arioso della scrittura, quasi come riflesso dell'organismo che la produce. Sono la cadenza, il ciclo verbale a fare di essa un exemplum che riporta la narrativa dal naturalismo al mito moderno del nuovo Ulisse. Guglielmo Ferrero, figura apprezzata da Joyce, era stato tra i primi a rilevare il processo dell'Ulisse omerico che «ritorna a disperdere i proci ansiosi di usurparne il letto»25 verso un nuovo, possibile Ulisse, col compito di scongiurare l'"anglosassonismo" degli inglesi alla vigilia del secolo Ventesimo. Ma il desiderio di Leopold Bloom di rintuzzare Boylan doveva realizzarsi per mezzo di un'opera "informe" (Th.S. Eliot) che alterasse la forma romanzo di derivazione sette-ottocentesca, più che sotto l'impulso delle coloriture microregionali. Già Wladimir Krysinski, qualche anno fa, sottolineò il carattere aperto della nuova forma joyciana, dove «Ulisse potenzia l'apertura del romanzo. [...] Molly, moglie di Leopold Bloom, è un "oggetto" romanzesco, soggetto di enunciazione che recita lo stream of consciounsness o l'ultimo atto del teatro dublinese, su una scena romanzesca di Ulisse. In quanto tale, il monologo di Molly Bloom è uno dei segni di apertura e di incompiutezza del romanzo».26
Per questa ragione Gianni Celati ha preferito che il modernismo di Joyce - linguistico, testuale, di genere e di società - affiorasse dalla forma aperta della prosa, come essa veniva maturando episodio dopo episodio. E proprio in questa "apertura" egli ha potuto adattare la lingua italiana dei nostri tempi, dove anche gli elementi di convivenza con altre forme di comunicazione si rinnovano:

«- Sì, capo?
- Malto per Richie e Stephen, dillo a tua madre. Dov'è?
- Sta lavando Crissie, capo.
La bambina che dorme col papà, Crissie, il suo amorino.
No, zio Richie.
- Chiamami Richie e basta. In malora l'acqua frizzante! Ti butta a terra. Whusky!
- Zio Richie, davvero...
- Mettiti seduto e accomodati, sennò ti accomodo io, porco diavolo!
Walter strabuzza gli occhi cercando invano una sedia
- Capo, non ha da sedersi.
- Testa di rapa, e dove vuoi che le metta le chiappe? Porta la poltrona Chippendale! Stephen vuoi mangiare qualcosa? Mòcchela con le smorfie, eh? Una bella fetta di lardo fritto con un'aringa? Sicuro? Meglio. In casa abbiamo solo pillole per il mal di schiena. [...]
Case in rovina, la mia e la sua e tutte quante. Ai rampolli di buona famiglia di Clongowes tu dicevi di avere uno zio giudice e uno zio generale nell'esercito. Dàcci un taglio, Stephen». (Celati, 2013, pp. 53-54)

«Cosa c'è, signore?
- Da bere per Richie e Stephen, dillo a mamma. Dov'è?
- Fa il bagno a Crissie, signore.
Compagnuccia di letto di papà suo. Zolletta d'amore.
- No, zio Richie...
- Chiamami Richie. Al diavolo 'sta porca idrolitina. Ti butta giù. Vischi!
Zio Richie, veramente...
- Accomodati o, per Mosé, Harry, ti accomodo io.
Walter sbircia attorno cercando invano una sedia.
- Non ha su cui sedersi, signore.
- Non ha nulla da posarci le mele, allocco. Porta la nostra Chippendale. Vuoi un boccone di qualcosa? Non venirmi a fare lo schizzinoso qua dentro; una bella fetta di lardo fritto con un'aringa? Davvero no? Tanto meglio. In casa non c'è altro che pillole per il mal di schiena. [...] Case in rovina, la mia, la sua e tutte le altre. Hai detto ai nobiletti di Conglowes che avevi uno zio giudice e un altro generale nell'esercito. Escine fuori, Stephen». (De Angelis, 1960, p. 57)

Fabio Rossi ha abbondantemente documentato l'influenza del cinema sulla lingua comune. Egli ha mostrato, in una serie di studi,27 quanto e in che modo le pellicole, soprattutto americane, abbiano "contagiato" l'apprendimento linguistico sul nostro territorio, e ha collocato il discrimine che separa l'italiano scolastico dei doppiatori e degli adattatori del Dopoguerra da quello "d'uso" degli ultimi quarant'anni, all'altezza del Padrino di Francis Ford Coppola. Momento a quo i calchi dello slang hollywoodiano hanno fatto breccia non solamente nella comunità dei parlanti, ma anche fra gli scrittori. Sullo stesso piano - se non addirittura in posizione preminente - vanno considerati i condizionamenti operati dal medium televisivo, imponente modellatore di lessico, a cui abbiamo già fatto cenno. Tema, questo, la cui bibliografia, da Gian Luigi Beccaria in avanti, è incrementata non poco e con fruttuosi sviluppi.28 Ebbene, il brano citato a titolo esemplificativo mostra che Celati aderisce, in taluni casi, a un lessico massmediale. Si tratta di un'attitudine non del tutto consapevole, suggerita dalla volontà di renderci il colloquialismo joyciano. Ma il traduttore sondriese - come già anticipato - non eleva a sistema alcun metodo, restando fedele solo all'obbligo di una originale consonanza della prosa, insito nella sua stessa vocazione di scrittore. A ciò si deve senz'altro anche l'idea di alieno che percorre la sua esperienza di intellettuale e traduttore fin dai tempi in cui pose mano alla traduzione della Favola della botte di Swift.29 Questa figura, costantemente dimensionata altrove, impedisce una traduzione plausibile e, anzi, forse suggerisce rese inafferrabili, che siano il riverbero di un uomo perennemente estraneo alle cose. Dopotutto l'"arte" di Proteo, in base allo "schema Linati", è la filologia, che nella vicenda di Stephen Dedalus è metafora di un linguaggio mutevole, nuovo o vecchio.
Come già nel brano precedente, il riuso di certa fraseologia convive con regionalismi innestati qua e là. Celati non ha rivoluzionato la traduzione di De Angelis, non ha inteso soppiantarla ma, anzi, a distanza di mezzo secolo, egli ha riconosciuto che quel "prodotto" è tuttora valido, poiché ne ha ereditato alcuni dei principi che lo ispirarono, adattandoli ai nostri anni. Il già menzionato «capo», e poi «chiappe», la forma interrogativa «sicuro?» e quella esclamativa «dàcci un taglio» sono evidenti riflessi lessicali di provenienza cinematografica. Gli ultimi due, in particolare, sono casi paradigmatici. Celati preferisce tradurre «sure?» con «sicuro?», piuttosto che con «davvero?» o con la forma non ellittica «sei sicuro?» (Alberto Rossi aveva reso con «proprio no?»),30 accogliendo la riproduzione passiva dell'originale, alla maniera dei doppiatori italiani del cinema americano (i quali, però, vi erano costretti dalle esigenze della sincronizzazione).31 Quanto a «dàcci un taglio», sarà utile notare che solitamente esso traduce «cut it out!». Nel nostro caso il testo originale diverge, ma Celati adotta ugualmente la resa "da doppiaggio", come se agisse una sorta di meccanismo da riproduzione mimetica dei linguaggi audiovisivi. Come ha scritto di recente Fabio Guarnaccia, in uno studio sugli effetti di grande e piccolo schermo sugli scrittori, «anche lo scrittore contemporaneo che ha in odio la tv deve a essa buona parte del suo campionario retorico, di stile, di toni».32 Nel caso in questione, il quadro che ne viene è poliedrico, ma del tutto affine ai tipi di traduzione e adattamento da doppiaggio cinematografico. Celati sviluppa sia il metodo "naturalizzante" che quello più strettamente filologico, teso cioè a rispettare l'originale. Ma, soprattutto, il curioso target oriented messo a punto dal traduttore è alterato da quella stonatura regionalistica (qui «mòcchela») senza la quale il timbro, il poliglottismo, le locuzioni e l'intessuto stesso voluti da Joyce si perderebbero nella piatta restituzione dello stampo originale. Siamo vicini al principio della "traduzione totale", che Georges Mounin33 enunciò negli stessi anni delle riflessioni pasoliniane con cui abbiamo aperto questo lavoro. Questa riproduzione mimetica dei linguaggi "filtrati" - realizzata dal versante del traduttore - garantisce a Celati il medesimo "sommovimento linguistico" che Pasolini intravedeva nella prosa dell'originale joyciano e in quella di Gadda, giudicato l'omologo italiano. Da questo fenomeno il poeta di Casarsa aveva fatto discendere le ragioni che giustificavano il suo tentativo di penetrare in forma-romanzo i pensieri dei borgatari, di attraversare direttamente il mondo verso il quale egli nutriva un naturale interesse e una naturale ambizione culturale. Allo stesso modo Celati - venutogli tra le mani un cosmo compresso in meno di ventiquattro ore, dove un uomo entra in scena a sipario aperto, compie una serie di spostamenti e di atti sempre "aperti", chiude la giornata orinando all'aperto e congedandosi in una prospettiva sospesa, affidata allo stream notturno della moglie - incontra nuovamente quell'alieno in cui egli si era imbattuto un tempo, prefigurato da Stephen Dedalus che, come avverte Franco Buffoni, ha nel nome un destino di insofferenza, di separazione dalle cose del mondo: «Stephen è il protomartire cristiano che si ribella all'ordine romano costituito; Dedalus è colui che osa ribellarsi alle leggi stesse della natura [...] Stephen Dedalus/James Joyce si rivolta contro l'essenza stessa dell'educazione ricevuta, ricorrendo alle tre fatidiche armi del silenzio, dell'esilio e dell'astuzia».34 Da questo secondo incontro viene la coscienza di una traduzione che lo renda estraneo anche a casa sua, nell'italiano delle scelte lessicali "divergenti" che deve affrontare l'ostacolo degli idiomatismi e dei dialettismi joyciani. Solo in qualche caso - come abbiamo visto - Celati si rifugia nella comoda soluzione dell'"innesto", per non correre il rischio della disseminazione. Resta fermo il principio della "nuova mimetizzazione" - per restare al vocabolario pasoliniano - col quale il traduttore prende possesso del personaggio, conducendolo nel terreno lessicale di una comunità di parlanti ampia (italiana colta, standardizzata, televisiva, padana).
L'operazione celatiana ha, dunque, una natura eterodossa, frutto di una stratificazione linguistica che l'italiano "sorvegliato" di De Angelis non poteva possedere. Eppure l'esperto voluto da Mondadori fu protagonista, a sua volta, di un caso altrettanto esemplare di contaminazione televisiva - rivelatore di una dinamica attestata nel tempo - quando tradusse «lithia water» con «idrolitina» (A. Rossi «acqua minerale»; Terrinoni-Bigazzi «acqua minerale litiosa»; Celati «acqua frizzante»), soggiacendo, evidentemente, alla notorietà del prodotto industriale favorita da Carosello. La popolare trasmissione dedicò molte serie di "strisce" alle rinomate bustine del "Cavalier Gazzoni", sin dal 1958.35 Non c'è dubbio che in Italia, a cavallo degli anni Sessanta, l'acqua "litiosa" fosse comunemente nota come "idrolitina", l'acqua da tavola frizzante. I volti di Gino Bramieri, Aurelio Fierro e Nino Manfredi e le loro divertenti gag resero il prodotto celeberrimo. Il traduttore della "sessantana" avrebbe potuto mantenere la versione di Alberto Rossi, filologicamente più corretta e semanticamente efficace. Preferì, invece, un'incursione nell'italiano televisivo, segno di un desiderio di ringiovanimento dialogico e di uno smarcamento dallo sclerotismo dell'italiano scritto. Ma nel caso di De Angelis si trattò di un episodio isolato e ci trova solo in parte d'accordo il giudizio del già citato Buffoni che vide in quel lavoro la volontà di «intercettare un gusto neoavanguardistico ultrafavorevole al pastiche linguistico, fervidamente contemporaneo»:36 troppo marcato il toscanismo urbano postunitario, molta l'attenzione alla distribuzione organica della prosa, la prudenza nel dosaggio di stile e linguaggio.

 

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III. L'infedele Celati: una "questione privata"

La comparazione delle traduzioni è una pratica tipica delle nuove edizioni di un testo. È tanto naturale quanto rischiosa: qualche volta essa è anche speciosa. Abbiamo cercato, finora, di tenerci a debita distanza da accostamenti schematici e convenzionali; abbiamo evitato con cura i luoghi più esposti - per invalso costume, abitudine e tradizione critica - ai confronti e alle esegesi (paragonare gli incipit, ma anche lo svarione grammaticale di Molly nel quarto episodio o il sempre dibattuto «U.P.: up» nell'ottavo). Abbiamo voluto, invece, "stanare" il traduttore là dove egli si sente più riparato, nei passaggi che paiono interlocutori, persuasi come siamo che la traduzione non è solamente l'accertamento della fedeltà semantica, né la pura riconsiderazione di uno spazio semiotico. Più che il metodo ci preme il principio. E quando sosteniamo - come è già accaduto per accenni - che l'opera di Celati è più vicina al "monumento" di De Angelis che a Terrinoni non intendiamo stilare graduatorie di merito, ma registrare percorsi diversi ancorché legittimi.
La ben nota "intraducibilità" dell'Ulisse è tuttora una questione aperta, sin dalle «gherminelle linguistiche» di Carlo Linati,37 che con questa definizione giustificò la propria rinuncia all'impresa. Enrico Terrinoni stesso ci ha spiegato che un simile colosso della letteratura europea necessitava di essere "democraticizzato":

«Dal momento che Ulysses ha circolato ovviamente in molti paesi, soprattutto attraverso le sue traduzioni, ci si chiede se e in quali modi può un traduttore essere autorizzato oggi a tentare un'operazione di democratizzazione del testo. Per quanto riguarda il tradurre opere di questa complessità, è importante capire come sia possibile riscrivere davvero un capolavoro la cui polisemia investe più livelli di senso e al tempo stesso mantenere il suo messaggio di umanesimo universale e democratico. [...] In questo momento storico, quando le opere di Joyce hanno la possibilità di circolare più facilmente, intellettuali e operatori culturali, tra cui ovviamente includo gli editori, hanno la grande opportunità di rispondere a questo appello di democrazia lanciato dall'Ulysses di Joyce, un testo nato per emancipare la propria gente dal giogo mortale dell'oppressione politico-coloniale britannica e da quello spirituale della Chiesa Cattolica Romana, per dirla con le parole del suo autore».38

La traduzione di Terrinoni e Bigazzi ha senza dubbio dei meriti: è un lavoro coraggioso, stilisticamente apprezzabile e linguisticamente "fresco", frutto di uno scrupoloso studio storico-culturale al quale si devono anche importanti chiarimenti su dubbi e imperfezioni passate,39 arricchita da un'introduzione e un apparato critico utili e puntuali. Sembra muovere, tuttavia, da un intento - rilevato dai recensori con toni talora acriticamente enfatici - che, se non chiameremo sbagliato, ci pare almeno ovvio da un lato e ingeneroso dall'altro: restaurare l'italiano di De Angelis e ammodernare la prospettiva socio-storica dell'opera.40 Quanto al primo mandato, nonostante le smentite di prammatica,41 appare innegabile la volontà di effettuare - se non proprio un risanamento - una ristrutturazione dell'impianto lessicale e sintattico della storica traduzione precedente. L'operazione è tanto più evidente quanto dichiarato è l'effetto che da essa deve derivare, elevato quasi al rango di missione etica: restituire al lettore il già citato "socialismo" del dublinese e, in particolare, fare in modo che ciò avvenga mediante una nuova coloritura lessicale del testo.
È il caso, a questo punto, di accennare all'altra traduzione italiana dell'omeride joyciano di cui abbiamo finora taciuto, come condizionati dalla soppressione e dall'oblio ai quali essa fu ridotta subito dopo la sua pubblicazione: nel 1995 la fiorentina Shakespeare & Company pubblicò l'edizione tradotta da Bona Flecchia,42 ma l'allungamento del godimento dei diritti di copyright fino ai settant'anni, sopraggiunto poco dopo, impose l'arresto delle stampe e la distruzione delle copie già esistenti. Qualche sparuto esemplare, scampato alla damnatio memoriae, ci consente oggi di guardare a quel testo clandestino come a una specie di "anello mancante" della catena e constatare che, se il criterio di valutazione di una traduzione dell'Ulisse, sono - meramente - la dimensione orale della scrittura e l'adesione allo status anglo-irlandese della lingua, vale a dire le doti che - sopra tutte - sono state riconosciute al volume Newton Compton - il lavoro di Bona Flecchia, screditato dall'illegittimità e per questo trattato come se non fosse mai stato realizzato, aveva già tracciato la strada. Al netto delle discutibili scelte interpretative di alcuni passi (la traduttrice tenne conto solo parzialmente della edizione critica di Gabler diffusa a metà degli anni Ottanta, e preferì seguire il metodo della «prospezione e ricostruzione autonoma del testo joyciano», come ella stessa scrisse),43 la versione di Bona Flecchia fu un buonissimo esperimento sul piano creativo. È interessante scorrere le righe di Sirene, un episodio fra i meno semplici in fatto di traducibilità, di quelli che invitano a facili operazioni "sonore". Ma nel caso che segue le allusioni alle opere liriche mancano:

«- Vedo che avete spostato il piano.
- È venuto l'accordatore oggi, rispose Miss Douce, a dargli una sistematina per il concerto pubblico, e non ho mai sentito un esecutore così squisito.
- Davvero?
- Non è forse vero, Miss Kennedy? I veri classici, sa. Ed era pure cieco, poveretto. Sono sicura che non ha vent'anni.
- Davvero? Disse Mr Dedalus.
Bevve e s'allontanò.
- Così triste a guardarlo in volto, si condolse Miss Douce.
Che Iddio ti stramaledica bastardo d'una troia. [...]
Due fogli di carta pergamena crema uno di riserva due buste quando ero da Wisdom Hely il saggio Bloom da Daly Henry Flower comprò. Non sei felice a casa? Fiore a consolarmi ed uno spillo ammaliarmi. Mi vuol dire qualcosa, linguaggio dei fio. Era una margherita? Quella sta per innocenza. Ragazza rispettabile appuntamento dopo messa. Grazissime tantissime. Saggio Bloom notò un manifesto sulla porta, una ondulante sirena che fumava nel mezzo di flutti attraenti. Fuma Sirene, la miglior boccata che ci sia. Capelli grondanti: derelitta d'amore. Per un uomo. Per Raoul. Volse lo sguardo e vide lontano su Essex Bridge un gaio cappello sopra un trappolino. È. Terza volta. Coincidenza». (Bona Flecchia, 1995, p. 208)

«- Vedo che avete spostato il piano.
- Oggi è venuto l'accordatore, replicò miss Douce, ad accordarlo per lo smocking concert, e non ho mai sentito nessuno suonare in modo così squisito.
- Sul serio?
- Vero, miss Kennedy? Musica classica coi fiocchi, sapete. Ed è pure cieco, poveraccio. Sono sicura che non ha neanche vent'anni.
- Sul serio? Disse MrDedalus.
Bevve e si allontanò.
- Triste l'espressione che ha in volto, si dispiacque Miss Douce.
Che Dio lo maledica quel figlio di puttana. [...]
Due fogli carta pergamena color crema uno riserva due buste quando stavo da Wisdom Hely's saggio Bloom da Daly's Henry Flower ha comprato. Non sei felice a casa tua? Fiore per consolarmi e spillo allontana l'am. Significa qualcosa, linguaggio dei fio. Era una margherita? Innocenza, ecco cosa. Ragazza per bene incontrarci dopo la messa. Millanta grazie tante. Il saggio Bloom adocchiò un poster sulla porta, una sirena ondeggiante che fumava tra le belle onde. Fumo mermaid, l'odore migliore basta. Capelli a fiumi: disperato per amore. Per un uomo, per Raoul. Adocchiò e vide da lontano sull'Essex bridge un cappello vivace a spasso su un calesse. Proprio così. Terza volta. Coincidenza». (Terrinoni-Bigazzi, 2011, pp. 323-324)

«- Vedo che avete spostato il piano.
- Oggi c'è stato l'accordatore, rispose Miss Douce, ad accordarlo per il concerto pubblico e non avevo mai sentito un esecutore così squisito.
- Ma davvero?
- Non è vero, Miss Kennedy? Proprio la vera classica, sa. E anche cieco, poveretto. Non doveva avere più di vent'anni, ci scommetto.
- Ma davvero? Dirre Mr Dedalus. Bevve e si allontanò.
- Che pena a guardarlo in faccia, si condolse Miss Douce.
- Dio maledica il figlio d'una troia [...]
Due fogli di carta pergamenata crema uno di riserva due buste quando ero da Wisdom Hely il saggio Bloom da Daly Henry Flower comperò. Non sei felice a casa tua? Fiore per consolarmi e uno spillo porta male. Vuol dire qualcosa, linguaggio dei fio. Era una margherita? Innocenza, ecco cos'è. Ragazza rispettabile incontro dopo la messa. Grazie mille tante. Il saggio Bloom adocchiò sulla porta un avviso, un'ondulante sirena che fumava fra amabili onde. Fumate sirene, la boccata più fresca di tutte. Grondante chioma: derelitta d'amore. Per un uomo. Per Raoul. Adocchiò e vide di lontano sul ponte Essex un gaio cappello sopra un calessino. È. Terza volta. Coincidenza». (De Angelis, 1960, pp. 354-355)

Abbiamo selezionato non a caso una delle poche parti dell'episodio che non contempla riferimenti musicali diretti, per verificare il lavoro del traduttore su una prosa più descrittiva. Bona Flecchia alternò saggiamente elementi alti a elementi "pop", con una scelta che attiene più a una impressione generica di metrica eufonica che a un esame filologico, nonostante potesse disporre degli strumenti che il testo corretto di Gabler garantiva. Eppure quel lieve e sommesso incrocio dà a un passaggio ostico come il nostro un estro che De Angelis ci fece assaporare a tratti. Mantenne quasi tutti i registri alti della vecchia traduzione («and I never heard such an exquisite player»: «e non ho mai sentito un esecutore così squisito»; «miss Douce condoled»: «si condolse Miss Douce»), abbassandoli con discrezione: «tuning»: «a dargli una sistematina»; «not twenty I'm sure he was»: «sono sicura che non ha vent'anni», con efficace ellissi discorsiva che si ripete in «Are younot happy in your home?»: «non sei felice a casa?». Sintomatico è «Flower to console me and a pin cuts lo»: Flecchia rese con un "ampio" «Fiore a consolarmi ed uno spillo ammaliarmi», che ignorava l'elisione originale (come già De Angelis) per amor di ritmo. Si tratta di una scelta che scosta la tentazione "filologica" di Terrinoni e Bigazzi, alterandone in verità un poco il piano semantico; ma l'improbabile «spillo allontana l'am.» dell'edizione 2011, ci appare un inutile purismo che non si avvede dell'andatura armonica dell'originale inglese. Il leggero rilievo di Nadia Fusini, benché riguardasse il monologo di Molly, è plausibile: «È chiara l'intenzione iperrealista dei traduttori [Terrinoni e Bigazzi] di riportare la lingua ad una dimensione orale, ad una specie di livello aurale della sonorità delle parole. È secondo me una forzatura ingenua. Perché se è Molly a parlare, è pur sempre Joyce a scrivere. Non c'è mito dell'oralità che tenga in casa Joyce».44
E veniamo a Celati:

«- Vedo che avete spostato il piano.
- Oggi c'è stato qui l'accordatore, rispose Miss Douce, ad accordarlo per il concerto pubblico. Non avevo mai sentito uno che suonasse in modo così delizioso.
- Ma sul serio? disse Mr Dedalus.
- Non è vero, Miss Kennedy? La vera roba classica, sa? E cieco per giunta, poveretto. Neanche vent'anni, sono sicura.
- Ma sul serio? disse Mr Dedalus.
Bevve e si mosse altrove.
- Che pena guardarlo in faccia, si condolse Miss Douce.
Che Dio maledica quel figlio di troia. [...]
Due fogli di carta pergamena color crema uno di riserva due buste quando ero da Wisdom Hely il saggio Bloom da Dely l'Henry Flower comperò. Non ci stai bene a casa tua? Fiore per consolarmi e una puntura di spillo porta male. Vuol dire qualcosa, linguaggio dei fiori. Era una margherita? Innocenza ecco cosa. Ragazza rispettabile incontra dopo la messa. Grazie tantissimo mucho. Il savio Bloom occhieggiava sulla porta di un poster, dondolante sirena fumava tra belle onde. Fumate Sirena, la più fresca boccata che mai. Chioma al vento, consunta d'amore. Per certi uomini. Per Raoul. Occhieggiò e vide in distanza sull'Essex Bridge un gaio cappello sopra un calessino. Ecco là. Terza volta. Coincidenza». (Celati, 2013, pp. 362-363)

In un celebre saggio45 Jacques Derrida rifletteva sull' "impossibilità della traduzione", sintagma sovente chiamato in causa a proposito dell'Ulisse. Il filosofo, muovendo da un altro suo noto assunto - la "possibilità dell'impossibile" - sosteneva che ogni testo è intraducibile, ma proprio in ragione di ciò può e deve essere tradotto. In altre parole, l'impossibilità stessa di approdare a una traduzione definitiva impone l'incessante tentativo del tradurre; l'impossibilità «si oppone, ma altrettanto si consacra alla possibilità».46 A Celati è stata rimproverata la scarsa attitudine del linguista,47 la tendenza a invadere l'opera con "personalismi" poco ortodossi: «Anziché tentare di rendersi invisibile, cosa che dovrebbe fare ogni traduttore, Celati si mette in mostra dovunque nel testo», ha bacchettato duramente John McCourt. Elisabetta D'Erme ha rincarato la dose quando ha rilevato che «la traduzione di Celati, priva di note esplicative, pone anche problemi di riconoscimento delle così dette "parole stampella" [...].Queste parole chiave inopinatamente mascherate dai sinonimi di Celati, rischiano di diventare irriconoscibili, lasciando il lettore senza punti di riferimento».48 Giudizi a tal punto inclementi sono un invito a non tradurre; o, viceversa, a tradurre solo in vista di una resa "assoluta", fedele. Ma «una traduzione fedele» - ha scritto Raoul Kirchmayr - «è quella che apre a una promessa che le appartiene come un appello rivolto ad altri».49 Si ricorderà, a questo proposito, il caso in cui Derrida tradusse «when mercy seasons justice» del Mercante di Venezia di Shakespeare (scena I, atto IV) con quella "apertura di senso" che gli suggerì «quando la grazia rileva la giustizia», invece del classico «quando la grazia tempera la giustizia»,50 poiché quel verbo inusitato garantiva un ventaglio semantico che procedeva dal "gusto" per giungere al "disgusto", passando per il "sublime", e affidando a successivi tentativi il chiarimento più opportuno, in base alla sottolineatura di contesto. Così, quando Gianni Celati decide che un passaggio a prima vista ininfluente quale «he drank and strayed away» merita di essere tradotto con «bevve e si mosse altrove», dietro un'apparente pedanteria elabora una "apertura di senso" che lascia sottendere in Simon Dedalus sia l'indistinto vagare sia la ricerca di una sede per il canto sia lo stimolo acquisito: il tutto in un campo semantico evidentemente segnato dal turbine sessuale, matrice dell'episodio. Un tale criterio giustifica la pratica che Elisabetta D'Erme ha sbrigativamente chiamato "sinonimo" e alla quale il già menzionato John McCourt non ha risparmiato altre pesanti considerazioni.51 Il caso più naturale è il refrain pubblicitario «what is home without/Plumtree's Potted Meat?/Incomplete./With in an abode of bliss», ripetuto tre volte, in Lotofagi, Lestrigoni e Itaca.52 Celati dà tre versioni diverse, ma la ragione c'è né è difficile trovarla nella sua "genetica" letteraria. Un dialogo con Marianne Schneider - traduttrice che di Celati ha curato parecchie edizioni in lingua tedesca - svela il metodo o, per meglio dire, la percezione che egli ha della traduzione:

«Intanto devo dire che la traduzione io la sento come un modo di riscrivere i libri, e per questo mi piace molto tradurre. Tra il tradurre e il riraccontare c'è qualcosa di simile, ed è l'emozione di metterti in un flusso di immagini che ti guidano momento per momento. La fedeltà in questi casi sta nel fatto di mantenere l'energia, i colori, le tonalità di un certo flusso».53

Tradurre è riscrivere, cioè raccontare di nuovo. Come già in Derrida, la traduzione prevede, talora, un nuovo lemma che a sua volta contiene un commento "lasciato in consegna". Riscrivere è vitale, proprio secondo la dialettica "possibile-impossibile" che obbliga alla traduzione poiché un testo assoluto non può essere dato. Ecco ancora Celati:

«Prova a pensare a un testo scritto definitivamente, come se si trattasse d'un oggetto solido che resta sempre uguale a se stesso, attraverso le generazioni e tutti i diversi modi di leggerlo. È ridicolo. È un'illusione legata alla mitologia dell'opera d'autore. [...] L'idea che esistano "opere di autori", invece d'un flusso collettivo di parole, non è un dato di fatto, è una vecchia pretesa umanistica. [...] C'è sempre una tribù di autori che preme dietro alla cosa che stai scrivendo o riscrivendo».54

I sette anni di lavorazione hanno di volta in volta "riposizionato" il traduttore. E a questi nuovi versi formulari - chiaramente concepiti alla maniera dei tanti dell'Odissea omerica - spetta ora il compito di ribaltare la «mitologia dell'opera d'autore». Le diverse versioni di uno stesso brano o di uno stesso sintagma sono il nuovo modernismo celatiano, il work in progress del traduttore, poiché «non esiste l'opera "originale". C'è sempre un pullulare di motivi che vengono da tutte le parti»55 e che facilita anche scelte impopolari. Come non notare che Celati, nel brano di Sirene prima riportato, è l'unico dei traduttori a non restare fedele all'elisione di «flo.»? poiché «le tonalità di un certo flusso», autentico "timone" di queste operazioni, suggerivano di accompagnare il cerchio sonoro e cromatico del «fiore» che aveva aperto il periodo.
Il nostro traduttore, nell'introduzione al suo Ulisse, ha avvicinato la scrittura di Joyce, la ripartizione delle sequenze, il "traffico" convulso dei pensieri, al cinema di Dziga Vertov.56 È un paragone pertinente, non c'è dubbio. L'uomo con la macchina da presa,57 il più noto e celebrato contributo filmico del primo dei fratelli Kaufman, sembra riprodurre per immagini tutto l'armamentario modernista di Ulisse, nella rottura parossistica della linea narrativa, nella sovrapposizione e nella accelerazione visionarie. L'ultima sequenza della pellicola, quella in cui il "cineocchio" vertoviano procede per libero accumulo delle impressioni fino ad allora raccolte, è una valida rappresentazione dello stream che chiude il «flusso di vite» di Mr Bloom e degli altri. Ma la corretta intuizione di Celati non è una novità sul fronte cinematografico: i nessi del romanzo col cinema sovietico sono accertati anche dalla "teoria del montaggio" di Ejzenštein, dove apprendiamo che il cineasta di Riga aveva letto Ulisse nel 1928; nel 1934 egli tenne una lettura di Joyce al VGIK, con la quale illustrò la fondamentale portata nel cinema dello scrittore, del suo Ulisse e della tecnica del monologo interiore:58 «il suo contenuto non è altro che il magma manipolato dell'inconscio che passa nella coscienza dell'uomo durante il dormiveglia e il sonno».59 Ornella Calvarese ha bene illustrato la presenza e la permanenza di un certo metodo di scrittura in Ejzenštein sin dai primi appunti sul teatro e sul cinema:60il "magma dell'inconscio" che il regista di Stacka! rinveniva nella giornata di Leopold Bloom, aveva radici nelle "transizioni psichiche" di William James e in tutto il nuovo focus degli scrittori inglesi del primo Novecento. Noi crediamo che Gianni Celati non ignori tutto questo, ma abbia avvertito una naturale consonanza di Joyce con Vertov più che con Ejzenštein, poiché gli sembra che il montaggio - spartiacque sottile ma determinante fra i due - del primo produca una specie di "rivoluzione costante" delle cose e che essa abbia posto l'obiettivo dell'incantamento, intrecciando vorticosamente le immagini e rinunciando a ogni cosa: al narrato, alla storia e a ogni ausilio a essa, fino alle didascalie.61 Non si tratta soltanto di verificare le simmetrie fra le tecniche (lavoro già ampiamente svolto da Thomas W. Sheehan),62 quanto di incontrare nella singolare "macchina da presa" celatiana ciò che può giustificare la ripresa unica e privata di questo Ulisse tradotto, a cui gli utili, naturali e sommi apparati avrebbero fatto un torto imperdonabile.
In fin dei conti, era stato proprio James Joyce ad autorizzare il nuovo e perenne "disordine delle parole" di ogni nuova traduzione quando, in una lettera del giugno 1924 a Herriet Weaver, scrisse: «Ogni volta che sono costretto a restare sdraiato con gli occhi chiusi, vedo un cinematografo che va e riva avanti, e questo mi riporta alla memoria cose che avevo quasi dimenticato».63 Ciò che Celati percepisce dalla lettura dei 18 episodi non è altro che il "paradigma antirealista" di Vertov che domandava agli spettatori una specie di confronto diretto con le immagini giustapposte: il Celati lettore di Joyce non assimila ma elabora tutto ciò che «si presenta come apparenza transitoria, subito ri-orientata da altre apparenze».64
È per questo che il «to lie» della lettera di Joyce significa anche «mentire».65

 

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Giugno-dicembre 2013, n. 1-2