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          BOLLETTINO '900 - Testi / A, giugno 2000             Successivo

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Vincenzo Sarcinelli
Morna nell'anima

In quella sera guidavo per smarrire il pensiero di te in uno dei campi verdi e tristi che costeggiano la strada liscia e curva che porta alle colline. Viaggiavo nel buio e m'illudevo che, aprendo il finestrino per affidare la cenere al vento dell'estate, il ricordo di te sarebbe uscito dalla mia automobile e sarebbe andato a confondersi per sempre con le luci lontane della pianura che illuminavano d'arancio le nuvole, in modo che io non avrei piu' potuto rivedere i tuoi occhi ne' i movimenti delle tue labbra che parlavano con altri. E invece l'idea di te non usciva da me ne' dalla mia auto che, incosciente, si riempiva di una musica dal colore rosso e nero che non potevo smettere di far andare, come se avessi voluto farla ascoltare anche ai grilli che non ne sapevano niente, per condividere con essi il ricordo di te e chiedere loro di portarselo via con se' quando sarebbe arrivato l'inverno, affinche' io non avessi piu' potuto avere memoria dei tuoi capelli neri e lucidi e delle tue dita lunghe e chiare, che invece quella musica malvagia, seduta vicino a me sul sedile del passeggero, mi ricordava. Eppure io non potevo fermarla, quasi sapessi che qualcuno l'aveva gia' cantata in una notte come quella su una strada come quella, con le grandi querce che ondeggiavano e facevano segni illeggibili a me che danneggiavo il mio tempo pensando al giorno in cui ti vidi per la prima volta. Cosi' mi perdevo in quella musica di chitarre e pianoforte [Nel cielo di cenere affonda il giorno dentro l'onda sull'orlo della sera temo sparirmi anch'io nell'ombra la notte che viene e' un'orchestra di lucciole e ginestre tra echi di brindisi e fuochi vedovo di te sempre solo sempre a parte abbandonato quanto piu' mi allontano lei ritorna nella pena di una Morna] che sembrava provenire da una terrazza in riva al mare per poi smarrirsi nel buio profondo di un oceano qualsiasi, che forse solo in un abisso cosi' grande il ricordo dei tuoi seni fieri e gonfi, opera di nessun chirurgo, avrebbe potuto perdersi per non tornare piu' a me a darmi dolore. E come di un suono dolce e crudo pieno di sottintesi mi si riempiva la memoria dell'istante in cui alzasti gli occhi dai banchi di fronte alle grandi finestre, mi guardasti e fu troppo tardi: i tuoi occhi erano neri e grandi, di una profondita' che dava le vertigini, riflettevano la luce del pomeriggio e umiliavano il sole. Da allora io annegai nel tuo mare e non sarebbe servito altro a rendere inefficace tutto cio' che avrei visto dopo di te. Il tuo sguardo sembrava contenere molti pensieri e tutto dentro vi si muoveva velocemente, che forse stavi solo ragionando sul tuo libro o forse era tutta una posa studiata per apparire bella, ma non importa. Allora io nemmeno mi posi la questione, perche' annaspavo gia', come dentro quella musica che mi teneva in ostaggio la ragione e non trovavo piu' i miei quaderni ne' le mie precedenti meditazioni, ne' vedevo altro che non fosse riflesso nei tuoi occhi o che non si trovasse entro un angolo i cui estremi erano le tue labbra lucide e vive come la bocca del vulcano acceso, che sembra cosa grandiosa e magica, ma e' solo una piccola parte dello spettacolo che si produce nascosto allo spettatore incantato. E allora dimenticai tutte le altre che avevo visto per strada e la loro bellezza convenzionale, mero arredamento della realta'. In te avevo visto un fatto diverso dal tessuto del mondo, eppure il mio mondo si era intessuto di te e mi pareva che cio' che t'incorniciava perdesse rilevanza e al tuo passaggio si scostasse, che' altrimenti il tuo sguardo avrebbe fatto piu' prigionieri di una guerra, come faceva con me quella musica di tango moderno [e sull'amore che sento soffia caldo un lamento e viene dal buio e dal mar e quant'e' grande la notte e il pensiero tuo dentro nascosto nel buio e nel mar grido non piu' immaginare ancor tanto qui c'e' soltanto vento e parole di allora il vento della sera sara' che bagna e poi s'asciuga] mentre mi sfiorava la visione di Dio che ostinatamente tentava da secoli di inventare occhi come i tuoi e ci riusciva solo con te, e in quel momento io li avevo di fronte e non potevo non guardarli e non potevo guardarli, perche' mi ci ero smarrito e non riuscivo piu' a trovare la strada per tornare indietro. Una solida intuizione mi pervase le costole: che l'amore e' soltanto un grande senso d'inferiorita'. E io, che cambiavo piano le marce in quella notte che mi mostrava una discreta collezione di stelle opportunamente montata nel cielo, non so il tuo nome e non l'ho mai voluto chiedere a chi ti conosceva, perche' sarebbe stato inutile ripetere sul mio letto o alla scrivania o in fondo al mare, un suono che non avrebbe mai potuto diventare un corpo solido vicino al mio. E allora ti ho chiamato come ti si chiama in questa canzone, che l'autore forse ha la mia stessa storia da raccontare ma non ha piu' il coraggio dell'immaginazione. Io non so neppure quante sigarette fumai in quell'ultima notte di dolore, che lo stomaco mi si torceva di te e della tua assenza, che invece mi sarebbe bastato vederti per non aver piu' bisogno del sole di giorno e del sonno di notte, dell'ombra dell'estate e del silenzio dell'inverno. E invece, seguito dalla musica che portavo addosso come lo zaino del soldato, [e labbra che ricordano e voce e carne che si scuote sara' sara' l'assenza che m'innamora come m'innamoro' tristezza che non viene da sola e non viene da ora ma si nutre e si copre dei giorni passati in malaora quando e' sprecata la vita una volta e' sprecata in ogni dove e sull'amore che sento soffia caldo un lamento e viene dal buio e dal mar] sgualcivo la notte percorrendo da solo la strada ancora calda, finche' mi fermai e uscii dalla mia auto incendiata dal tuo ricordo. Andai nel prato buio cercando invano il demonio per patteggiare a qualsiasi prezzo l'oblio di te e poi m'inginocchiai senza piu' forze. Un singhiozzo precedette l'istante in cui cominciai a vomitare. Quando ebbi finito, l'aria silenziosa mi entro' nei polmoni e mi sentii cosi' vuoto e stanco, che mi parve di aver restituito tutte le cene della mia vita. Mi sedetti e poggiai le mani sull'erba umida, guardai verso sud e, lentamente, respirando l'aria appuntita che mi si offriva dalla pianura, mi attraverso' un senso di calma fino a sentirmi quasi sereno, come avessi appena finito di pagare un debito rinnovato per lungo tempo. Mi parve allora che l'aria stessa avesse un sapore diverso e i rumori avessero un rumore diverso. Mi accorsi della vita e con sorpresa notai che per un certo tempo, ero persino riuscito a non pensare a te e pur tornando la mia mente al tuo ricordo, mi parve che esso non mi si conficcasse piu' nell'anima con la stessa crudelta'. Stavo per alzarmi e andare via senza capire, quando vidi la luce dei fari illuminare il prato e, chinatomi curioso, riconobbi nell'erba parte di cio' che avevo mangiato alcune ore prima, ma la quantita' mi parve eccessiva per provenire dal mio stomaco. Allora guardai meglio e scorsi un corpo piu' solido e lungo, che non poteva essere il mio cibo. Con l'aiuto di un sasso scostai i residui piu' piccoli e isolai una cosa di colore chiaro, forse bianco, che originando come da un ceppo piu' grande, si ramificava poi in segmenti piu' lunghi e fini. La toccai, quella cosa, e capii subito che si trattava della mia anima [e quant'e' grande la notte e il pensiero tuo dentro nascosto nel buio e nel mar grido non piu' immaginare ancor quel che e' tanto e' soltanto vento e rimpianto d'allora il vento della sera sara' che bagna poi s'asciuga e ancora musica e sorriso sara' e cuore che non tace la schiuma dei miei giorni sara' che si gonfia e poi si spuma sara' l'anima che torna nella festa di una Morna] cosi', senza piu' tema di sporcarmi le mani, la ripulii maneggiandola con cura e poi cercai di rimettermela dentro. Ma fu inutile, non voleva piu' entrare, non potevo riaverla in me. Disperato, la tenni in braccio cullandola come avrei fatto con una bambina malata e, cosi' facendo, mi accorsi che dentro di essa si era saldamente annidato il pensiero di te. Allora cercai di estrarlo una volta per tutte, ma anche quella operazione non doveva avere successo: eri cosi' irreparabilmente dentro la mia anima, che liberarla da te era impossibile. E cosi' decisi di rinunciare, di lasciarla li', che forse solo in quel modo potevo dimenticarti. La lasciai cadere nel prato buio, la mia anima, e risalii in macchina ripartendo velocemente. Ora non so come sara' la mia vita, ma e' certo che, finalmente, per me tu non sei piu' una forma speciale di dolore e percio', ogni giorno che verra', dovro' resistere alla tentazione di tornare indietro, almeno finche' qualcuno non sara' capitato in quel prato e rischiando magari di calpestarla, le avra' gettato un'occhiata curiosa, alla mia anima, e poi, dopo averla raccolta, l'avra' fatta sparire una volta per sempre, credendola un oggetto abbandonato da qualche gitante di citta', che non sarebbe mai tornato indietro a cercare una cosa smarrita in una notte di bagordi.


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Bollettino '900 - Electronic Newsletter of '900 Italian Literature
versione e-mail - SEGNALAZIONI / A, agosto 1999. Anno V, 4.
Redazione: Daniela Baroncini, Eleonora Conti, Stefania Filippi,
Anna Frabetti, Elisa Soverini; Editor: Federico Pellizzi.
Dipartimento di Italianistica dell'Universita' di Bologna, Via Zamboni 32,
40126 Bologna, Italy, Fax +39 051 2098555; tel. +39 051 2098595/334294.
Reg. Trib. di Bologna n. 6436 del 19 aprile 1995 - ISSN 1124-1578

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