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          BOLLETTINO '900 - Segnalazioni / B, ottobre 2002             Successivo

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SOMMARIO:

- Carlo Schiavo
Resoconto della Giornata di Studi: "D'Arzo scrittore
del nostro tempo"
Reggio Emilia, 13 aprile 2002.

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Sabato 13 Aprile 2002 si e' svolta a Reggio Emilia una
giornata di studi dedicata a Silvio D'Arzo, con il titolo
"D'Arzo scrittore del nostro tempo". L'obiettivo era
discutere sull'importanza di D'Arzo e della sua opera
nell'ambito del '900, e di offrire un aggiornamento
critico dei risultati acquisiti nel precedente
convegno del 1982.
I lavori sono stati aperti da Ezio Raimondi con una breve
e densa relazione. Raimondi ha ricordato come D'Arzo sia
uno scrittore complesso ed estremamente problematico,
che solo a fatica noi lettori stiamo ricomponendo nella
sua totalita' aperta. Il nostro compito e' infatti quello
di portare ordine nella pluralita' darziana, rispettando
pero' le ragioni della sua ansiosa ricerca: non dobbiamo,
allora, privilegiare una parte rispetto ad altre, poiche'
tutti i vari momenti sono presenti insieme. Raimondi ha
dunque scorso alcuni di questi motivi, sottolineando
infine come D'Arzo ci appartenga "ora", in quanto mette
in gioco l'"identita'" e il senso profondo di un enigma
esistenziale che e' anche la matrice, la forza nascosta,
della sua scrittura.

Primo vero relatore e' stato Gianni Celati, che ha tentato
di analizzare le influenze che la letteratura di lingua
inglese ha avuto su D'Arzo, in special modo per quello
che riguarda il concetto di "socialita'". Celati ha
introdotto il suo lavoro notando lo stile di scrittura e
di organizzazione del discorso di D'Arzo, la prosa del
quale "e' per cosi' dire taciuta, afona" (citando
Manganelli). Il discorso non vistoso, sempre smorzato,
aperto, costituisce una linea poco seguita dalla
cultura italiana. Linea che prende corpo anche
negli articoli che D'Arzo ha redatto sui tre autori
in lingua inglese che piu' lo hanno attratto: autori
gia' di per se' decentrati e forse dissidenti rispetto ai
comportamenti sociali tradizionali, e articoli a loro
volta forieri di interpretazioni in contraddizione con
le opinioni correnti. Cosi', Stevenson, James e Conrad
si distanziano dal rumore del sociale nella gioia del
raccontare, il senso del quale deriva da un silenzio
di fondo che in quanto tale non va spiegato ma
solo intuito.

Anche Massimo Raffaelli ha trattato dell'attivita' di
stesura di articoli, affermando che D'Arzo ha svolto un
lavoro non tanto di critico letterario quanto di "lettore".
Al pari di Serra, infatti, egli cercava nello scrittore
un sodale, non da interpretare, ma con la volonta' di
coincidere con lui a livello etico e morale (Raffaelli,
per definire questo atteggiamento, ha usato il termine
"etopea"). In tal modo si verifica, ad esempio, una
coincidenza con James: entrambi sono narratori in cui
"non succede niente ma accade tutto". Questo, inoltre,
ha portato il relatore a sconfessare un'illusione ottica
determinata da una sorta di sillogismo: gli anni '80
vedono un ritorno della narrativa in Italia; negli anni
'80 viene riscoperto e riletto D'Arzo; ergo, D'Arzo e'
uno dei responsabili di quella rinascita. In realta',
secondo Raffaelli, D'Arzo ne e' l'esatto antipode, in
quanto la fabulazione in Italia e' rinata sotto l'insegna
di un greve, seppur dissimulato, neo-naturalismo, in cui
tutto si puo' raccontare, e nell'imitazione di tutti i
linguaggi mediali: al contrario che in D'Arzo, allora,
"succede tutto ma non accade nulla".

Successivamente, Enrico Testa ha avanzato alcune
osservazioni sulla lingua di *Casa d'altri*, individuando
un legame molto forte tra una complessita' di fondo e
una veste formale almeno apparentemente molto semplice.
Testa ha fatto notare da un lato l'adozione di alcuni
istituti morfo-sintattici della lingua parlata,
dall'altro lato un loro rapporto con alcune diverse
componenti del testo e soprattutto con la superiore
funzione cui essi obbediscono. Di conseguenza, anche
se *Casa d'altri* non appartiene per nulla al
contemporaneo genere neorealista, certi suoi moduli
linguistici si riveleranno di maggior portata rispetto
ad esso: non e' difatti necessario marcare la lingua
mimeticamente, a livello sociale e geografico, per
toccare le corde essenziali dell'oralita'. D'Arzo le
tocca di striscio, e ponendosi altri e diversi obiettivi.
Uno di essi e' il continuo richiamo all'attenzione.
Il lettore viene posto per cosi' dire in una soglia,
quasi un terzo protagonista accanto ai dialoghi tra
la voce narrante e le altre voci, dialoghi di cui la
stessa voce narrante presenta come il resoconto.
Anche per questo la lingua e' fondata sui principi
dell'attesa: l'attesa di una risposta da parte del
lettore, la quale per forza di cose e' diffratta. La
sostanza di tale meccanismo e' rispecchiata a livello
testuale proprio nei dialoghi. Essi, ferme restando
le ellissi, le interruzioni, le reticenze, le maschere
verbali, possono fondarsi su due diversi principi che
stanno dietro alla relazione tra gli interlocutori.
Se si improntano all'asimmetria fra di essi, troviamo
un sentimento di vergogna per le parole, e il dialogo
si configura come una sorta di laccio verbale a cui
e' necessario sottrarsi per mettersi in salvo. Se
invece vi e' una condivisione tra i due parlanti, ne
risulta implicata una ricchezza di senso altrimenti
impossibile.

Alberto Bertoni ha concluso la mattinata parlando
del D'Arzo poeta. Bertoni ha preliminarmente constatato
che la sua produzione non puo' essere considerata un
corpus coerente di testi. *Luci e penombre* e' l'opera
ancora acerba di un quindicenne curioso e precoce,
sospeso tra echi classici e memorie convergenti da
Pascoli e da D'Annunzio (con Carducci sullo sfondo).
Secondo il relatore, i momenti forse piu' efficaci
sono quelli che riescono a rendere dialettico il
rapporto tra quei due modelli contemporanei. In seguito,
D'Arzo compose altre otto poesie, in cui diviene
visibile l'influsso della letteratura di lingua inglese,
anche a livello di costruzione metrica. Dopodiche',
brucio' ulteriori dodici poesie. Di esse si sono
salvati due frammenti, che testimoniano un nuovo
cambio di prospettiva: il tema e', in nuce, gia'
quello di *Casa d'altri*, libro in cui il ritmo del
prosatore tende ad accogliere i versi del poeta.

Raffaele Crovi ha aperto gli interventi del pomeriggio,
avanzando la tesi che i luoghi di D'Arzo siano in realta'
dei "non-luoghi". Pseudonimi, riferimenti toponomastici
di libri, voci, colori: mentre attraverso questi veri
e propri topoi l'uomo-autore cerca la sua identita',
noi lettori possiamo tentare di dare un'identita' allo
scrittore. Gli pseudonimi, allora, sono maschere che
Ezio Comparoni s'inventa e indossa. I luoghi prioritari
della sua vita sono stati il leggere e lo scrivere,
luoghi che egli abitava quotidianamente e che ha
raccontato. Tutte le sue opere presentano personaggi
che sono suoi doppi, nonche' coppie in cui l'uno e'
il doppio dell'altro, grazie alle quali egli esprimeva
l'identita' nell'alterita'. I luoghi toponomastici,
da parte loro, sono frutto di una sorta di
"dislocazione", e possono pertanto definirsi
"metafisici". Non sono realisticamente descritti, ma
sono tutti teatrali, scenografici: simbolici ed
emblematici. E sono luoghi le voci, in quanto
"voci d'altri". E i colori, infine. Che indichino
inquietudine, malinconia, solitudine, rappresentano
una situazione generale in cui si trovano coinvolti
i personaggi.

Stefano Costanzi ha sottolineato l'importanza di sapere
"quale" testo si sottoponga ad analisi prima di indagarlo
criticamente. Di *Casa d'altri*, infatti, si conoscono
due versioni differenti, una edita da Sansoni nel '53
e una da Vallecchi nel '60. Costanzi si e' chiesto dunque
quando fu scritto il libro, e se si puo' parlare di
una versione definitiva. Secondo la sua ricostruzione,
l'ultima volonta' di D'Arzo e' quella sansoniana,
edizione basata su un dattiloscritto, perduto, che
contiene la piu' avanzata revisione stilistica. Macchioni
Jodi, nell'edizione del '60, sovrappose ad essa una
precedente revisione sempre dattiloscritta (conservata),
il cui testo base proveniva si' dall'identico manoscritto
(perduto), ma testimonia una diversa e nuova volonta'
dell'autore, legata ad un altro suo progetto in divenire.
Le differenze, determinate da espunzioni di lunghi
passaggi nell'edizione del '60, generano quindi due testi
profondamente diversi, e pertanto diversamente
interpretabili in sede di critica testuale.

L'intervento di Emanuela Orlandini ha individuato
la "sospensione" come la costante delle varie fasi
della scrittura di D'Arzo: la modalita' prima della
sua narrazione, ed insieme lo stupore di chi (scrittore,
lettore, personaggi) si muove all'interno di essa e la
avverte. Cosi', nei primi racconti di *Maschere* la
troviamo nell'atmosfera delle vicende di un'umanita'
piegata dal male. Il momento e il luogo della sospensione
sono altresi' il "silenzio", vero sostrato di tutte le
opere darziane. Emblematico e' il racconto *Una storia
cosi'*, dove avviene la sospensione della Morte stessa,
e quindi la confusione tra essa e la vita, l'attesa e
l'approdo a cio' che "NON e'". La sospensione, in
seguito, si rinnova anche nell'incontro tra D'Arzo
e gli scrittori inglesi. Ma pure se il mondo grigio e
indifferente, dapprima negato e visto con sospetto,
diviene poi l'approdo, la verita' rimane sempre sfuggente;
e resta l'attesa, la sospensione del finale.

Stefano Calabrese ha proposto una lettura di
*All'insegna del Buon Corsiero*. In questo libro, lo
spazio non e' perimetrale, il tempo "salta", l'intreccio
partecipa tanto del "verosimile novel" quanto del "romance".
Per di piu', vi e' un unico avvenimento, e la fine lascia
tutto irrisolto. Il libro e' inoltre popolato da artisti.
Al livello dell'atto di enunciazione, poi, il narratore
allestisce delle vere e proprie "scene", in cui le stesse
cose vengono viste da piu' punti di vista diversi.
Sul piano tematico-simbolico, infine, vi sono allusioni
alla mansione archetipica dell'artista: riprodurre cio'
che esiste in un'immagine che sostituisce la realta'
oltre a rappresentarla. Tutti questi fattori rendono
il libro un "romanzo dell'artista". Ma D'Arzo lascia
un'impronta tutta sua nella tradizione novecentesca
del "Kunstelroman". L'artista decadente si era liberato
dagli stretti vincoli del naturalismo, aveva abolito la
realta' e ne andava creando un'altra dal nulla (il
Funambolo-demonio). Gli oggetti narrati si sbarazzavano
cosi' dal compito di fissare le identita', e le cose
potevano finalmente essere uguali a se stesse, "scene".
In *All'insegna del Buon Corsiero* le cose finiscono per
collassare, tendono a ritrasformarsi in cio' che
originariamente erano: il non-discreto, l'indistinto,
il "silenzio". Sembra allora che D'Arzo abbia voluto
riconsegnare alla letteratura la funzione che essa
aveva svolto all'inizio del suo cammino occidentale:
configurare un destino, anticiparne la direzione
e il significato.

Giuseppe Pontremoli ha chiuso i lavori parlando del
D'Arzo autore per l'infanzia. Quando a D'Arzo venne
proposto di scrivere un libro per ragazzi, egli rispose
entusiasticamente, ma era allo stesso tempo preoccupato
di evitare la "goffa mediocrita'" della quasi totalita'
dei libri che aveva guardato. Infatti, considerava
i bambini e i ragazzi prima di tutto delle persone
serie, da trattare seriamente, poiche' sapeva bene
quale ricettacolo di colori, di disillusioni, di
immedicabilita' potesse essere il tempo dell'infanzia.
Pontremoli ha poi constatato come purtroppo il D'Arzo
per ragazzi non abbia editori interessati ad una
ripubblicazione, essendo considerato o culturalmente
inutile ("sic") o commercialmente fallimentare.
E questo nonostante *Penny Wirton* sia, secondo
il relatore, il libro piu' bello della letteratura
italiana per l'infanzia (e non solo per essa) dopo
*Pinocchio*.

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Segnalazioni / B, ottobre 2002. Anno VIII, 5.

Direttore: Federico Pellizzi
Redazione: Michela Aveta, Eleonora Conti, Stefania
Filippi, Anna Frabetti, Valentina Gabusi, Saverio Voci.

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Reg. Trib. di Bologna n. 6436 del 19 aprile 1995.
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