Lo scrittore e il mondo
(intervista a R. Montanari, A. Nove, T. Scarpa)
a cura di Valerio Cuccaroni

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Qual è il medium (es.: giornale, radio, cinema, televisione, internet, ecc.) che condiziona e/o ha condizionato di più la tua scrittura? In che modo la condiziona e/o l'ha condizionata?

Tiziano Scarpa: Ci tengo a dire che la mia scrittura è stata ed è condizionata dalla scrittura. La letteratura è un amorevole duello con i morti viventi, cioè con gli autori che ci hanno preceduti. Mi sento di ripeterlo ad alta voce, perché purtroppo attualmente circola il luogo comune che liquida la letteratura dei miei coetanei come se fosse un sottoprodotto del cinema, della musica, della tivù che abbiamo consumato da bambini e da adolescenti… Tutti i media che tu elenchi sono stati importanti per me, soprattutto quando hanno conservato alcuni valori che nel frattempo venivano erosi da due fronti avversi: il manierismo sperimentale-avanguardistico e lo pseudo-sublime umanistico. Questi valori essenziali sono l'immediatezza comunicativa e il godimento narrativo, il massimalismo della fantasia.

Aldo Nove: Il medium che più condiziona la mia scrittura sono gli angeli, che mi dettano i libri mentre dormo (dettano in latino, poi io al mattino traduco in italiano un attimino sderenato)

Raul Montanari: Direi il cinema per quanto riguarda i modelli narrativi. E' da un po' di tempo che propongo una nuova classificazione delle arti fra narrative, cioè che ti mettono in condizione di raccontare una storia (quindi: cinema, prosa, teatro, fumetto, canzone, fotoromanzo…) e non narrative (musica strumentale, pittura, architettura, scultura…). Le arti narrative sono sorelle, hanno tutte in comune i problemi di macroorganizzazione della storia (il punto di vista, l'intreccio, ecc.), mentre ovviamente i metodi per risolvere questi problemi sono specifici per ciascuna. Il cinema hollywoodiano classico (Hitchcock, per esempio) si basa su trame fortemente strutturate, perché la scommessa finanziaria nel fare un film è infinitamente superiore a quella del libro, perciò tutto (aspetti narrativi inclusi) dev'essere calibrato alla perfezione. Io ho anche scritto sceneggiature, e in genere il mio modo di scrivere è da narratore, covers incluse.

Che ruolo affidi al linguaggio letterario (es.: comunicativo, espressivo, sociale, rivoluzionario)? Pensi che in tale ruolo altri linguaggi e mezzi di comunicazione siano oggi più efficaci? In che rapporto deve essere la letteratura con tali mezzi?

T. S.: Il linguaggio letterario è un progetto di conoscenza emotiva e passionale, non intellettuale. La parola letteraria è profetica. Sta nella zona fra rappresentazione e fraintendimento della cosiddetta realtà. È travisamento, cioè visione fantasmatica che trapassa e sfonda la consistenza di ciò che guarda; non è semplicemente analisi o interpretazione. La letteratura è l'arte che lavora con il materiale sensoriale più povero: lavora in un regime di deprivazione sensoriale pressoché totale. Leggendo un romanzo non si vedono le figure, non si sente la voce del personaggio, non si sa che faccia abbia… La letteratura può sfruttare proprio i suoi limiti. Per esempio, un romanzo può travisare visionariamente una città, proprio perché non è costretto a «mostrarla», come fanno il cinema e la tivù.

A. N.: Per rispondere ci vorrebbero cento pagine (per cercare di capirci qualcosa). Provo a farlo in cinque righe (cinque righe e mezzo). Il linguaggio letterario è per me occasione (l'unica di cui dispongo, cantando malissimo e non sapendo recitare) di provocare. «Provocare» vuol dire «rivolgere verso qualcosa». Con ironia. E rabbia. Verso la realtà. Che è un gran casino.

R. M.: La letteratura prende da tutto, beve da tutto, come un pochino credo di aver detto sopra. Prende anche da un'arte non semantica come la musica, che è un grande modello emozionale. Il linguaggio letterario nasce secondo l'intenzione dell'autore ma viene regolarmente recepito secondo le disponibilità del pubblico (leggi: agente ed editore - sell in -, recensore e pubblico largo - sell out). Il mio è espressivo/comunicativo, zero sociale, poco rivoluzionario, ahimè.

Che cosa pensi della letteratura italiana contemporanea e dei suoi rapporti con gli altri linguaggi?

T. S.: «Letteratura italiana contemporanea» è una dicitura troppo vaga. Comunque, alcuni autori come Niccolò Ammaniti, Daniele Del Giudice, Valerio Evangelisti e Antonio Moresco riescono a fare con le parole cose più potenti di qualsiasi altro medium, proprio perché sfruttano artisticamente i limiti delle parole. Mi viene da pensare che l'errore teorico stia proprio nel considerare i linguaggi come «media». Un linguaggio non è un medium, non è un mezzo! Ciascun linguaggio (visivo, sonoro, verbale) è la natura e la vocazione delle arti. Ciascun linguaggio è la forma e il destino di ogni singola arte: proprio in quanto forma e destino, proprio in quanto percepisce sé stesso come mortale, ciascun linguaggio è la malinconia e la gloria dell'arte.

A. N.: a) Penso che abbia avuto un momento di grande vitalità tra il 1995 e il 1998, quando se ne è consumato il fenomeno attraverso la stronzata giornalistica dei «cannibali» (che pure ci è stata utile). Ora proseguono i percorsi individuali, che sono molto vari. Purtroppo, da allora, non ho sentito molte novità, a parte la prima prova di Paolo Nori per Einaudi e il bellissimo Il verbale di Marco Berisso, che però ha già alle spalle una lunga esperienza di poesia.
b) La letteratura è in interscambio continuo, osmotico e confusionale con tutti i linguaggi.

R. M.: Rapporti affascinanti quando si parla di autori della vecchia linea sperimentale (Balestrini, ecc.) e dei loro naturali discendenti (Scarpa e Nove, ecc.); gli altri si rapportano secondo modalità più tradizionali, prendendo da teatro, cinema e musica spunti abbastanza generici o scontati. Quorum ego.

 

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Giugno 2001, n. 1