Enzo Siciliano (a cura di), Racconti italiani del Novecento, Milano, Mondadori («I Meridiani»), 2001, 3 voll, € 147,00
di Eleonora Conti

 

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Dopo diciotto anni (1983-2001) l'antologia Racconti italiani del Novecento a cura di Enzo Siciliano (Milano, Mondadori, «I Meridiani») torna in libreria. L'inizio del nuovo millennio si presta a un bilancio del secolo appena trascorso cosicché, mentre la prima edizione raccoglieva in un solo volume ottant'anni di racconti italiani, l'edizione attualmente in libreria moltiplica per tre i volumi in cui sono antologizzati e presentati cento anni di narrativa breve del nostro paese.
Il criterio seguito dal curatore nella scelta degli autori - già specificato nella Prefazione al volume di quasi vent'anni fa e ripetuto e aggiornato nell'Introduzione alla seconda edizione (ora ampliata e fornita di un titolo significativo: Racconti di un secolo, storia di un Paese) - è anagrafico: si tratta di narratori compresi fra chi avesse compiuto quarant'anni nel 1900 e chi ne avesse compiuti altrettanti nel 2000 (nel 1980 per la prima edizione): l'autore che apre l'antologia è Federico De Roberto e chi la chiude è Giulio Mozzi (era Antonio Debenedetti nel 1980). Siciliano sa bene che un criterio è sempre restrittivo e discutibile, ma la scelta di un'età che offra «una media di maturità nella vita di un autore» gli consente di sfuggire i giovanilismi e di orientarsi su una produzione che testimoni presso i narratori antologizzati un mestiere e un'attività ormai consolidati e una cifra riconoscibile.

Nelle due prefazioni, peso consistente è riservato alle riflessioni intorno alla definizione di «racconto» e «novella». Sembrerebbe un preliminare importante ad un'operazione complessa e ambiziosa come la scelta di testi che rappresentino la produzione e la tradizione italiana di un secolo denso e mutevole come quello appena trascorso. La questione appare però fin da subito tutt'altro che facile da risolvere.
Nonostante ammetta che la definizione che Boccaccio dà di novella («Novelle o favole o parabole o istorie che dir le vogliamo») potrebbe applicarsi anche al racconto, Siciliano sottolinea che i due termini non sono sovrapponibili. Dapprima egli sembra voler risolvere la questione sul piano storico (il racconto viene storicamente dopo la novella: è il prodotto di una borghesia ormai consapevole del proprio status sociale); ma poi si sofferma anche sulla diversa tonalità e struttura narrativa dei due generi: infatti, benché abbiano entrambi come oggetto il «raccontare», la novella narra un'esperienza di vita vissuta che poi diventa esemplare, perché addita la superiorità dell'intelligenza sulla morale e sui comportamenti comuni; il racconto invece non ha la stessa struttura a cerchio che decreta con una sorta di «corona conclusiva» tale vittoria, non ha lo stesso andamento secco e scandito, bensì ha per interesse principale lo scorrere dell'esistenza, di cui può soffermarsi a cogliere anche i palpiti. Questa libertà di accompagnare con maggior naturalezza lo scorrere del tempo gli conferisce una maggior distanza dalla favola, dall'exemplum morale: il racconto infatti - così come il romanzo - non ha paura di registrare le «zone morte e spente» della vita, non teme il languore, il rallentamento, l'opacità.
Questo sembrerebbe ricavarsi dal lungo ragionamento di Siciliano. In conclusione, però, la lunghezza stessa di tale dimostrazione, che percorre l'intera prefazione, mostra quanto sia complesso rintracciare un criterio univoco che delinei il discrimine fra i due termini in modo convincente e netto. Che la questione sia di difficile soluzione è sottolineato anche da Asor Rosa nella sua recensione al volume, dove propone le sue riflessioni sul tema, incentrate sulla diversa tessitura, sul diverso ritmo e situazione comunicazionale dei due generi (cfr. A. Asor Rosa, Un'Italia di racconti, «Nuovi Argomenti», n. 17, gennaio-marzo 2002, pp. 251-252).
La discussione sembra restare aperta, mentre il curatore dichiara l'intento della sua opera: offrire «una rappresentazione corale dei modi in cui gli italiani [...] si sono raccontati e si sono spesi a raccontare», percorrendo il paese da una periferia all'altra, in ogni direzione.

Paragonando le due edizioni, la prima considerazione da fare è che la misura più ampia che Siciliano si concede (tre volumi contro uno per vent'anni di racconti in più: quasi 6000 pagine contro le 1524 precedenti; 298 autori contro 71) lo costringe a un numero minore di tagli ed esclusioni: esemplare il caso di Grazia Deledda, esclusa dalla prima edizione a vantaggio di Maria Messina, dietro giustificazione plausibile e coerente con il taglio dell'antologia - più adatta alla misura del racconto la seconda, rispetto a una Deledda che trova la propria cifra nel romanzo -, e reintegrata nella nuova edizione. Tuttavia il volume del 1983 aveva davvero l'aria di un'antologia, con tutto il coraggio e il rischio di arbitrarietà che ciò comporta (peraltro, come si diceva, ben argomentati nella Prefazione e nei cappelli introduttivi ai racconti). Invece, questa seconda edizione, per la sua monumentalità, cessa quasi - l'affermazione è iperbolica, sì - di essere un'antologia e appare più come una enciclopedia, un immenso repertorio di autori, o meglio, come lascia supporre il titolo dell'introduzione, aspira ad essere una «storia» del racconto - e «di un Paese». Era ovviamente necessario integrare l'antologia con la produzione degli ultimi vent'anni, molto ricca, opera di scrittori giunti a maturità - anagrafica o letteraria - dopo il 1980 (tra gli altri Vassalli, Tabucchi, Moresco, Del Giudice, Tondelli, Doninelli, Affinati, Lodoli, Tamaro, Baricco, Veronesi, Mozzi), ma le integrazioni al primo volume (che si è sdoppiato, accogliendo un gran numero di vociani, di rondisti, di prosatori d'arte, di crepuscolari e scrittori di memorie: tra gli altri, Panzini, Slataper, Boine, Soffici, Cecchi, Cardarelli, Bacchelli, Barilli, Moretti, Gozzano, la Manzini, Loria, Raimondi, ma l'elenco è lunghissimo) tradiscono questa volontà di onnicomprensività, di dare un panorama il più esaustivo possibile (il curatore trova spazio per antologizzare anche se stesso con un testo di quasi settanta pagine, nel secondo volume). Il trapasso dal progetto antologico a quello storico traspare anche dal diverso impianto delle note biobiliografiche agli autori: lo statuto di antologia del primo volume induceva il curatore a segnalare della produzione degli autori solo le raccolte di racconti; qui invece, le note di Luca Baranelli mirano a ricostruire la produzione complessiva degli autori. Infine, la volontà di tirare qualche somma in questa storia letteraria d'Italia tracciata attraverso la misura narrativa breve è attestata dalla citazione di Eliot in apertura: «La tradizione non si riceve in eredità; se la volete, dovete conquistarvela a prezzo di grandi fatiche». Un'operazione importante, anche per il suo valore documentario e per il corposo lavoro di reperimento di testi, talvolta rari o introvabili.

Se dunque, nel volume del 1983, Siciliano, operando tagli mirati e consistenti, aveva dato al volume una fisionomia potremmo dire «rigorosamente narrativa», ossia disegnata da narratori-narratori (via i romanzieri, via i prosatori d'arte, via i residui di naturalismo ottocentesco...), qui il Novecento si configura come secolo onnivoro, spurio, ibrido, contaminato, multiforme, che, a una prima scorsa dell'indice, può creare diffidenza nel lettore per sovraffollamento di nomi (ci sono i poeti - numerosissimi, da Fortini a Caproni a Bigongiari a Porta a Zanzotto a Bellezza a Penna a Giudici a Gatto-; i critici letterari - da Pampaloni a Garboli a Macchia -; i giornalisti - Brera -; i giallisti - Scerbanenco, Olivieri, Camilleri: perché no allora Lucarelli e Fois? -; i cantautori - Guccini -; gli autori di un solo racconto - Cases -) e qualche difficoltà d'orientamento: ogni autore è rappresentato da un solo testo per cui non è l'ampiezza della scelta per alcuni rispetto ad altri ad assegnare loro un «peso» e per certi autori questo è schiacciante - un esempio fra tutti, quello di Calvino, la cui multiforme parabola dovrebbe essere rappresentata da un racconto neorealista del dopoguerra, Gli avanguardisti a Mentone -.
In questo senso Siciliano accoglie l'ipotesi che il racconto italiano del Novecento non abbia una identità pura, bensì che nel nostro paese - come notava anche Filippo La Porta ne La nuova narrativa italiana (Bollati Boringhieri, 1995) - a volte, proprio i testi « di non-fiction» - e La Porta citava la saggistica, i reportage, i diari, le biografie e autobiografie, le inchieste e i memoriali - offrano «non solo una maggiore presa sulla realtà ma, almeno in qualche caso, una lingua più inventiva e più ricca» (p. 142). Ipotesi valida, che concorre a meglio rappresentare i molteplici aspetti della realtà storica del nostro paese. Non si può non notare però, che proprio l'autore che chiude l'antologia, Giulio Mozzi, narratore che trova da sempre la propria cifra nella misura del racconto, in un recente volume intitolato Fiction (Einaudi, 2001), sembra aprire a una tendenza di tipo diverso, alludere a un possibile rimescolamento di carte fra fiction e realtà, assegnando alle «storie non vere» il compito di rivelare la verità (i testi presenti nel volume portano sottotitoli che conferiscono loro pretese di autenticità - una sbobinatura, una lettera, un intervento, pubblico appello -, ma le note, le appendici e le glosse che dovrebbero ulteriormente confermare questa caratteristica sono disseminate di incongruenze, assurdità e dati irreali).

Se a questo assunto - le maglie larghe del concetto di racconto - Siciliano aggiunge l'intenzione, già sottolineata, di tracciare la storia di un paese, ecco che si collocano al loro posto pagine che sono frammenti di storia, o meglio di microstoria che si fa macrostoria e disegna un movimento, il movimento di un secolo e di una collettività: la guerra, la resistenza, il mondo dell'editoria e della cultura italiane, il mondo rurale e quello dei quartieri popolari di ogni angolo d'Italia nel primo e nel secondo volume (da De Roberto a Bilenchi e da Tobino a Garboli); un mondo dai contorni meno netti, più sfaccettato, a volte crudele, immaginifico, iperindustrializzato, mediatizzato nel terzo (da Davì a Mozzi): «un paese spettrale» in cui più che gli eventi esteriori contano le percezioni della coscienza, i moti interiori narrati con «una sorta di affabulazione autoreferenziale continua» (per citare ancora il bilancio di lettura che ne dà Asor Rosa). Allora, viene da dire, pensando agli autori che entrerebbero di qui a pochi anni in un virtuale quarto volume (Ammaniti, Scarpa, Nove, Covacich, Culicchia, Ballestra, Campo, Brizzi, Vinci, ...), che questo paese frantumato, poco rassicurante e venato di tinte noir con cui si conclude il terzo volume è solo un assaggio di quel mondo lacerato, mercificato e deformato dalle lenti di un espressionismo esasperato che è il ritratto uscito dalle pagine della generazione più giovane che ha raccontato quest'Italia di fine millennio.

 

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Giugno-dicembre 2002, n. 1-2