William Trevor, Gli scapoli delle colline, Parma, Guanda, 2001, pp. 192, € 12,39 *
di Valentina Gabusi

 

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«Uno scrittore di racconti che ama scrivere romanzi». È così che si definisce William Trevor,1 autore irlandese, nato a Mitchelstown, vicino a Cork, che vive e lavora in Inghilterra da molti anni. E in effetti lo spazio ristretto di un racconto (nessuno supera le venti pagine) sembra proprio essergli congeniale: Trevor riesce a rendere con toni sfumati e riducendo l'azione al minimo il senso stesso della vita dei suoi personaggi, legato a un momento della loro esistenza che li ha segnati per sempre.
C'è un destino comune a tutti i protagonisti delle dieci storie narrate da Trevor: è l'illuminarsi improvviso della coscienza che li rende consapevoli di aver preso una decisione definitiva e inevitabile ad un certo punto della loro vita. Non si tratta in genere di fatti straordinari, sconvolgenti. Sono tutti episodi quotidiani, banali, ma si caricano di una intensità inattesa nel momento in cui vengono riconosciuti da chi li vive come scelte necessarie. Incontriamo allora un padre, una figlia e un corteggiatore legati da un inconfessabile segreto, un reverendo della Chiesa d'Irlanda rimasto solo in una piccola parrocchia priva di fedeli, un giovane operaio irlandese che preferisce una vita grigia alla tentazione di diventare terrorista, un eccentrico editore innamorato segretamente della moglie di un collega, due fratelli che vivono nel ricordo di una morte lontana, l'ultimo figlio di un agricoltore costretto a tornare alle colline paterne quando la madre diventa vedova…
Ambientati in un'Irlanda periferica (ma consapevole dei grandi mutamenti storici), questi racconti sembrano esemplificare la teoria della short story elaborata da Frank O'Connor,2 uno dei più importanti autori-critici del Novecento, anche lui irlandese. Per O'Connor il racconto dà voce a coloro che si trovano ai margini di una determinata cultura. Protagonista del racconto non è l'eroe, ma «the little man», quale è rappresentato in un testo come Il cappotto di Gogol. Gli elementi essenziali della short story sono quindi il piccolo, il marginale, laddove la dimensione a larga scala e la società istituzionalizzata ed egemonica sono gli ingredienti propri del romanzo.
Se si vuole trovare un tratto comune a tutta la raccolta, esso va ricercato nel tono pacato, nella scrittura piana, esente da qualunque manierismo, con cui Trevor ci rivela i misteri, piccoli e grandi, che danno origine a queste vicende apparentemente dimesse. Tutto il racconto è giocato su un clima di sospensione, nell'attesa di una rivelazione finale preparata con cura estrema, in un climax che a tratti riesce estenuante al lettore.
Esemplare da questo punto di vista è il testo che apre la raccolta, Tre persone, costruito intorno a un delitto avvenuto quattordici anni prima e che da allora costituisce un legame insolubile e tacito fra i tre protagonisti. Tutto fin dall'inizio concorre a suggerire un'atmosfera fatta di abitudini rimaste immutate nel corso degli anni. Frasi brevi, verbi al presente, un «come sempre» che ritorna più volte.

«È tutto come piace a loro: lui apre la veranda con la sua chiave e poi si fa sentire. Così sanno chi è: nessun altro suona quel campanello interno».3

Il racconto si svolge lento osservando un momento qualunque della quotidianità dei tre personaggi, un bagno riverniciato, un invito a cena, un rosaio sradicato dal vento. E mentre questi gesti comuni vengono compiuti, Trevor racconta il segreto che dietro di essi si nasconde. O meglio, fornisce degli indizi, aggiunge dei dettagli strada facendo, senza fretta, assaporando l'ansia del lettore.
Stesso clima di attesa, stessa sensazione di ineluttabilità, di necessità cui non ci si può sottrarre perché scaturita dal carattere stesso dei protagonisti (dal loro ethos, verrebbe da dire), si ritrova un po' in tutti i racconti, fatta eccezione forse solo per il più brioso Morte di un professore. Qui il tono è scherzoso, lo stile ha qualcosa di tagliente e sapido, che fa pensare più a un autore inglese che a un irlandese. L'ambientazione accademica ricorda David Lodge, mentre la spensierata tematica funebre può far venire in mente l'Alan Bennett della Cerimonia del massaggio.
Ma c'è un'altra caratteristica comune a tutta la raccolta. È un elemento che al di là di Trevor si ritrova in altri autori irlandesi (non in tutti, certo; uno scrittore, ad esempio, come Joseph O'Connor appare nei suoi racconti molto più vicino alla tradizione angloamericana): un forte legame con l'oralità, con la pratica di lettura ad alta voce, che non è ancora del tutto scomparsa in Irlanda, se è vero che alcuni pub famosi ospitano, a volte, le tournée dei sopravvissuti cantastorie. Proprio la figura del seanchaì viene richiamata in uno dei racconti del libro, Il dono della Vergine, dove all'eremita protagonista, in cammino verso la meta che la Madonna gli ha indicato, viene chiesto da una coppia di giovani contadini se lui sia un cantastorie. «[…] ma lui disse di no, senza aggiungere che l'unica storia che aveva da raccontare era la sua […]».
«La trasmissione orale ha caratterizzato la cultura irlandese fino ai tempi più vicini a noi: ancora oggi è facile ritrovarsi nel gruppo d'ascolto di uno/a seanchaì (cantastorie tradizionale di fatti e favole locali), che recita a memoria storie a decine infilzate una dietro l'altra, o di una cantante di sean-nòs (dello stile tradizionale) […]».4 A sottolineare questo aspetto particolare della cultura irlandese è Rosangela Barone, in un saggio sulla scrittrice Dora Murphy («The Watched» and Other Stories, Carlow Writers Group, 1992), ma è un dato molto interessante da tener presente anche parlando di Trevor. Non che i suoi racconti si possano identificare tout-court con narrazioni orali dal sapore tradizionale. C'è piuttosto in essi come una cadenza, un certo andamento ripetitivo vicino alla formularità cui si affidano le storie non scritte.
Prendendo ad esempio ancora una volta il primo testo:

«Sidney ha trentaquattro anni, trentaquattro anni, una settimana e due giorni. Aveva appena compiuto vent'anni la prima volta che aiutò Vera».5
«[Vera] è più vecchia di Sidney, ha quarantun anni; ne aveva ventisette la prima volta che lui l'aiutò, un periodo difficile per lei».6
«"Che vento!" esclama, passando, e Sidney dice: davvero, che vento».7


Oppure, nel terzo racconto, Il lutto, dove il nome del protagonista è ripetuto in modo quasi ossessivo:

«Sua madre […] si turbò quando Liam Pat disse che pensava di trasferirsi. "Cork?" chiese sua madre. Ma era l'Inghilterra quello che Liam Pat aveva in mente».8
«"Fagli una telefonata appena arrivi lì." Raccomandò a Liam Pat, e Liam Pat si annotò il numero».9

È un modo di costruire la narrazione che è profondamente diverso dalla short story angloamericana in generale (si pensi, per esempio, a Carver), che pure si sforza di essere il più possibile mimetica dello linguaggio parlato, di comunicare l'impressione di un naturalismo scabro, essenziale. Non è questo il tipo di oralità che si trova nel libro di Trevor. Qui non c'è tensione verso il realismo linguistico. Anzi. Il suo stile è, spesso, consapevolmente anti-realistico, proprio perché non vuole spiare la vita dei suoi personaggi standosene in disparte, come farebbe un osservatore casuale che si fermasse a sbirciare un interno da una finestra aperta. Trevor racconta delle storie, vuole essere ascoltato. Ciò che gli preme è assicurarsi la complicità e il coinvolgimento del lettore.
E così la short story irlandese, forma d'arte tipicamente moderna, non disdegna di mostrarsi legata, seppur tenuemente, all'antico genere del folk-tale tradizionale.

 

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