Intervista a Martina Testa
Burned Children of America
a cura di Gian-Luca Galletti

 

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Vorrei partire dal titolo del libro, Burned Children of America, una definizione dagli accenti cupi e di forte impatto emotivo che sembra suggerire un accostamento nel segno del trauma e del dolore con gli avvenimenti tragici dell'11 settembre, ad ogni modo una definizione suggestiva per un gruppo di scrittori intorno ai quali sembra raccogliersi un nuovo movimento letterario e generazionale. Come nasce il titolo della raccolta e a quali ferite si allude, a quali ustioni in riferimento a questa recentissima e in buona parte ancora sconosciuta "gioventù bruciata"?

Burned Children of America, bambini bruciati d'America: sembra uno di quei nomi fatti apposta per diventare etichetta, come "generazione X" o "i nuovi puritani". In realtà io e Marco Cassini - l'editor che ha curato insieme a me questa antologia di racconti degli Stati Uniti uscita nel novembre 2001 per Roma, minimum fax - abbiamo scelto di chiamarla così solo perché ci piaceva particolarmente il titolo del racconto che chiudeva la raccolta, Incarnazioni di bambini bruciati di David Foster Wallace. È un racconto che parla di un neonato ustionato. Niente riferimenti a gioventù bruciate di sorta. Ma quando, chiusa definitivamente la scaletta della raccolta, superato l'attimo di sgomento post-undici-settembre in cui un titolo del genere ci era apparso improvvisamente a rischio di sensazionalismo e di accuse di sciacallaggio, abbiamo riletto dal primo all'ultimo i diciotto racconti, ci siamo resi conto che era un nome che rendeva perfettamente giustizia all'oggetto.


Se la scelta del titolo è stata in qualche modo dettata dal caso e non intende rimandare ad alcuna particolare strategia di promozione, esiste allora un tema specifico, un filo conduttore che lega questi diciotto racconti di altrettanti scrittori, tutti sufficientemente giovani per farsi chiamare bambini, tutti a loro modo "bruciati", tutti attraversati dai sintomi del disagio? È forse questa tendenza al lato oscuro dell'esistenza, al disgusto all'angoscia all'urlo, che li accomuna e li unisce tutti sotto il nome di generazione? Siamo di fronte a un altro inquieto, disturbato maledettismo?

Burned Children of America non è un'antologia a tema, non è nata intorno a un criterio-guida rispetto ai contenuti o allo stile dei racconti. L'unico criterio che ci eravamo dati, nel metterla insieme, era che le storie fossero inedite in Italia, e scritte da autori americani sotto la quarantina. Per il resto, si trattava solo del nostro gusto personale. Che ci fosse un filo conduttore, che vi si respirasse un'atmosfera comune, non era nei nostri intenti: a posteriori, però, ci siamo accorti che il campione scelto apparentemente in maniera tanto random restituiva in un certo senso, di fatto, qualcosa di omogeneo, qualcosa di simile al ritratto di una generazione: una generazione di… bambini bruciati. I diciotto autori under-40 raccolti nell'antologia,1 in realtà, appartengono a una generazione che di "bruciato" a prima vista non ha molto; questi autori sono bianchi, benestanti, ben istruiti, conducono vite ben poco maledette: molti insegnano scrittura creativa all'università, alcuni sono esordienti ma altri hanno già pubblicato uno o più libri tradotti in diversi Paesi2 (tutti titoli che hanno riscosso - quanto meno in patria - enorme favore di critica e di pubblico), nessuno di loro è in preda all'alcolismo o alla depressione, nessuno è sopravvissuto a una guerra o alla miseria. Contrariamente allo stereotipo romantico, questi giovani scrittori americani sono persone che stanno bene. E allora perché sarebbe lecito chiamarli "bruciati"? Semplicemente perché nel leggere le storie che scrivono, si ha l'impressione che una bruciatura l'abbiano subita. Che un trauma l'abbiano avuto. Perché per un verso o per l'altro tutte, tutte e diciotto le storie dell'antologia parlano di esperienze traumatiche, o portano il segno di un autentico disagio: verso la società, verso i propri nuclei affettivi, verso il proprio corpo. Ma tutte e diciotto guardano la bruciatura, l'ustione, più o meno vasta e profonda che sia, quando si è ormai cicatrizzata: nessuno urla per il dolore. Voglio dire che il tono di questi racconti non è mai puramente, immediatamente drammatico. Nella scrittura dei diciotto autori c'è sempre un filtro: quello della surrealtà, quello dello straniamento, quello della letteratura di genere, quello della complessità stilistica. È l'uso, spesso magistrale, di questi filtri, che evitano costantemente cadute nella banalità del disagio e nell'autobiografismo più o meno compiaciuto, a contraddistinguere questi "bambini bruciati": è il modo in cui sanno osservare e descrivere le proprie bruciature. Con quel tipo di distacco dalla propria esperienza (che non equivale ad aridità o freddezza di scrittura) che spesso fa la differenza fra l'autore di talento e il dilettante che si reputa ispirato. Prendiamo ad esempio il neonato del racconto di David Foster Wallace. Quel bambino reagisce all'ustione da acqua bollente in una maniera che mi pare davvero emblematica: «quando la cosa non smetteva e loro non riuscivano a farla smettere il bambino aveva imparato a lasciare il proprio corpo e guardare lo svolgimento del tutto da un punto in alto, sopra la sua Testa»…


Dunque molti di questi scrittori non sono affatto esordienti, bensì autori affermati il cui talento è stato spesso premiato. Sono persone colte e benestanti, che hanno già raggiunto una condizione sociale serena e invidiabile. Per quale ragione allora chiamarli "bambini"?

Bambini in verità non lo sono più, questi diciotto scrittori. Ma dei bambini hanno conservato intatti il piacere della pura creazione, la libertà della fantasia, l'audacia della sperimentazione. E da grandi non hanno mai imparato a prendersi troppo sul serio. E così non hanno paura di giocare con i generi, anche e soprattutto con quelli tradizionalmente ritenuti bassi o infantili, come la fiaba e la fantascienza; non hanno paura di contaminare liberamente cultura alta tradizionale e cultura pop; i loro classici sono Dante, Flaubert, Kafka ma anche - passando per Calvino, Borges, DeLillo e Barthelme - Walt Disney, Superman e La zona del crepuscolo; scrivono racconti sotto forma di test di comprensione, di lettere di risposta ai reclami dei clienti, di saggi scientifici sull'origine del sonno, di galateo per signorine; i protagonisti sono bambini con le dita a forma di chiave, cani parlanti, Barbie ninfomani, graffette disperse in un ufficio, donne a cui spuntano denti su tutto il corpo, collezioniste di pitoni; sperimentano toni naif o da slapstick comedy, periodi convoluti lunghi intere pagine, contaminazioni fra Le città invisibili e i centri commerciali californiani. E tutto questo (qui sta a mio parere la loro mancanza di provincialismo e la radice di una maturità da veri autori) non a scopo deliberatamente provocatorio o di pura evasione. Quando presentano in tinte grottesche certe deformazioni della modernità non hanno mai il tono di chi vuole scandalizzare i benpensanti o denunciare la decadenza, e quando creano ambientazioni fantastiche non smettono mai di toccare temi tristemente familiari e profondi come quelli dell'incomunicabilità e dell'alienazione.


La science-fiction, il fumetto, il surreale, la cultura pop e le invenzioni di Walt Disney: i generi prediletti da questi autori sono stati ritenuti per molti anni figli di una letteratura fatua e disimpegnata, incurante del presente e orientata al consumo. Diversamente, la narrativa americana mainstream ci ha abituato negli ultimi decenni ad una aspra vena realistica, civilmente impegnata. Che rapporto intercorre tra quella tradizione e questi nuovi autori?

La narrativa realistica sembra, per molti di loro, essere passata di moda: ma questo non significa che quello che scrivono abbia contatti meno intensi con la realtà della vita quotidiana. Non c'è traccia di moralismo, eppure non si ha la sensazione di un narrare disimpegnato: questi scrittori spesso si divertono a scrivere, ma i loro racconti non si riducono affatto a puri divertissements: commuovono, angosciano, disturbano. Allo stesso modo della narrativa realistica, sono passati di moda anche i racconti che hanno per protagonisti scrittori che scrivono libri: la consapevolezza del proprio mestiere, sempre vivissima, si riscatta dall'autobiografismo e si esprime esclusivamente nell'uso della tecnica, nella pratica di quei filtri di cui dicevo sopra.


Provando a tirare le somme, vorrei riportare per intero un brano tratto dalla prefazione che tu hai scritto per il libro insieme a Marco Cassini: «Sono diciotto storie di angoscia, di estraneità, di impaccio: sono il modo che diciotto scrittori - diciotto cittadini degli Stati Uniti d'America nati tutti poco prima o poco dopo che l'assassinio Kennedy andasse in onda su televisori già a colori; che hanno avuto in famiglia o nel vicinato almeno un veterano del Vietnam; che sono andati a scuola all'epoca di Nixon e all'università nell'era di Reagan, temendo l'AIDS come i loro genitori avevano temuto la bomba; che hanno visto Hair al cinema e Radici in tv, ascoltato No Nukes alla radio, e sentito i fratelli e le sorelle maggiori raccontare dei "quattro morti in Ohio"; che sono concittadini di Simpson e Koresh, di Manson e Dahmer; che hanno avuto poster di Cobain e Belushi, di Hendrix e Lennon; che una decina di anni fa hanno visto i televisori diffondere una nuova, inquietante lucina verdognola attraversata solo di tanto in tanto dal bagliore di un missile lanciato su Baghdad; che nell'inverno del 2000 hanno sperato fino all'ultimo nelle urne della Florida; che ci hanno mandato un'e-mail l'11 settembre per avvisarci che erano ancora vivi… - il modo che questi scrittori hanno trovato per raccontare un disagio che non si può (e non sarebbe giusto) nascondere: generazionale, politico, storico, sociale, ambientale, familiare, di coppia, fisico, sessuale, mentale». È un ritratto immediato e convincente, dal quale a mio parere emerge in tutta evidenza il terreno storico e culturale che condividono questi diciotto scrittori e i loro racconti…

Sì, ma mi pare inoltre che ci sia un tema, o meglio un sottotema, che unisce la maggior parte di questi racconti come un sommesso Leitmotiv. Ho detto prima di un diffuso senso di disagio, delle tracce di bruciatura. In particolare, il terreno su cui si esplicita il disagio per molti di questi scrittori è il corpo. Nessuno di questi racconti è basato sull'introspezione psicologica; in moltissimi, al contrario (specie per le autrici donne, ma non solo), a farla da padrona è la fisicità: si parla di deformazioni, menomazioni, metamorfosi più o meno grottesche, disturbi dell'alimentazione, gravidanze e aborti, malattie misteriose, dipendenza dagli stupefacenti, devianze sessuali, circolazione sanguigna, cicli del sonno, protesi, cicatrici e ustioni. Un'attenzione quasi morbosa al corpo umano, oggetto tanto familiare quanto misterioso, passibile di alterazioni imprevedibili, terreno di clamorose esteriorizzazioni metaforiche dei processi psicologici. A me è venuto spontaneo pensare a una sorta di "letteratura ai tempi del tumore"; tanto più che uno dei pochi racconti in cui non è presente il tema del corpo (Multiproprietà di Jeffrey Eugenides) è comunque pervaso da un'atmosfera di degrado e disfacimento molto fisica (in quel caso, il corpo in lenta e inesorabile decomposizione è quello di un vecchio motel in bassa stagione sulla costa della Florida). Quando non parlano di corpi, in effetti, i racconti di Burned Children of America parlano di luoghi: di città. E anche lì la situazione non è meno inquietante, quasi che le stesse permutazioni surreali e spesso maligne siano semplicemente avvenute su più vasta scala. C'è il melting pot tragicamente, irrimediabilmente fallito in un quartiere ebreo e poi cinese di New York, c'è una gigantesca metropoli paralizzata in un unico ingorgo stradale, ci sono centri commerciali assurti al rango di città magiche e favolose, centri commerciali sotterranei ipermoderni e polverosi al tempo stesso a cui si accede tramite una Barriera Permeabile Da Un Lato Solo, centri commerciali in cui gli alunni delle superiori spacciano pasticche alle professoresse.


Considerata la varietà della proposta, le doti innegabili di gran parte degli autori e le tante dichiarate affinità che li avvicinano, credi che questa antologia possa indicarci la direzione preferenziale che sta seguendo e seguirà ancor più in futuro la short story americana?

No, non credo… Ho cercato di descrivere per sommi capi l'aria che tira nei racconti della nostra antologia, ma sarebbe improprio estendere certe caratteristiche all'intero panorama della short story americana: esistono, per esempio, scrittori ancora vigorosamente, hemingwaianamente realistici come Tom Jones, o autori che sembrano seguire più da vicino la lezione carveriana e tratteggiano l'epica minore della working class provinciale, ma dilatando e a tratti liricizzando la scrittura scarna del minimalismo, come David Means e Charles D'Ambrosio. Come ho detto, il campione è stato scelto quasi a caso e non ha pretese di rappresentatività su vasta scala. Inoltre, molti degli autori di Burned Children hanno già una voce personalissima e del tutto matura, e operare facili raggruppamenti sarebbe fargli un torto. Resta comunque il fatto che quella di "bambini bruciati" sembra un'etichetta sorprendentemente adatta, se non alla sensibilità di un'intera generazione di scrittori, almeno al contenuto di questa confezione di duecentocinquanta pagine chiuse fra i lunghi fiammiferi anneriti della copertina.


Bibliografia

I seguenti titoli si riferiscono tutti a raccolte di racconti, tranne dove indicato:

  • Bender, Aimee - An Invisible Sign of My Own, New York, Doubleday, 1998.
  • Bradford, Arthur - Dogwalker, New York, Knopf, 2001.
  • Budnitz, Judy - Flying Leap, New York, Picador, 1998.
  • Cassini, Marco; Testa, Martina (a cura di) - Burned Children of America, Roma, minimum fax, 2001.
  • Davis, Amanda - Circling the Drain, New York, Rob Weisbach Books, 1999.
  • D'Ambrosio, Charles - The Point, Boston, Boston, Little, Brown & C., 1995.
  • Eggers, Dave - L'opera struggente di un formidabile genio, Milano, Mondadori, 2000.
  • Eugenides, Jeffrey - Le vergini suicide (romanzo), Milano, Mondadori 1999.
  • Goldberg, Myla - Bee Season (romanzo), New York, Doubleday, 2000.
  • Homes, A.M. - La sicurezza degli oggetti, Roma, minimum fax, 2001.
  • Jackson, Shelley - The Melancholy of Anatomy, New York, Anchor Books, 2002.
  • Jones, Thom - Il pugile a riposo, Roma, minimum fax, 2001.
  • Kalfus, Ken - Sete, Roma, Fandango, in uscita nell'autunno 2002.
  • Matthew, Klam - Questioni delicate che ho affrontato dall'analista, Roma, minimum fax, 2002.
  • Jonathan, Lethem - L'inferno comincia nel giardino, Roma, minimum fax, 2001.
  • Jonathan, Lethem - Testadipazzo (romanzo), Milano, Marco Tropea, 2001.
  • Jonathan, Lethem - A ovest dell'inferno, Roma, minimum fax, 2002.
  • Lipsyte, Sam - Venus Drive, New York, Open City Books, 2000.
  • Means, David - Assorted Fire Events, New York, Context Books, 2000.
  • Moody, Rick - The Ring of Brightest Angels Around Heaven, Boston, Little, Brown & C., 1995.
  • Moody, Rick - Rosso americano, Milano, Bompiani, 1998.
  • Moody, Rick - Demonology, Boston, Little, Brown & C., 2001 (un libro che comprende solo due racconti della raccolta è uscito in Italia con il titolo Demonology, Milano, Bompiani, 2002).
  • Richter, Stacey - My Date with Satan, New York, Scribner, 1999.
  • Saunders, George - Civil WarLand in Bad Decline, Londra, Random House, 1996.
  • Saunders, George - Pastoralia, Torino, Einaudi 2001.
  • Slavin, Julia - The Woman Who Cut Off Her Leg at the Maidstone Club, New York, Henry Holt, 1999.
  • Wallace, David Foster - La ragazza con i capelli strani, Torino, Einaudi, 1998.
  • Wallace, David Foster - Infinite Jest, Roma, Fandango, 2000.

Inoltre, short stories di qualità, di questi e altri autori, appaiono regolarmente su un gran numero di riviste letterarie americane; tre fra le più influenti:

 

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