Giulio Iacoli
Per la sopravvivenza dell'istinto narrativo. Immagini di racconto dal Cinema naturale di Gianni Celati

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Sommario
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
Intus legere
Storie di un meraviglioso inerte
Non conclude
Udire, a distanza
Nec babilonios temptaris numeros
Fine/i



 

«LA FIGLIA: Rimangono solo le polene dei vascelli affondati… e i nomi: Giustizia, Amicizia, Aurea Pace, Speranza. Tutto lì, quello che rimane della Speranza… La Speranza ingannatrice! Barre, scalmi, gottazze! E guarda! Il salvagente: il salvagente ha salvato se stesso, ma ha lasciato affogare il naufrago!».
August Strindberg, Il sogno


§ II. Storie di un meraviglioso inerte

I. Intus legere

La metaforica dello spettacolo delle immagini mentali - già care al Calvino cinefilo e amatore dei segni urbani - si realizza nella dispositio teorica e poetica di Celati attraverso iuncturae sospese e suggestive, rimandi a codici altri rispetto alla letteratura per esprimere una icastica associazione di idee. Si incomincia con i Commenti su un teatro naturale delle immagini (1989), accompagnamento critico e creativo all'atlante delle stagioni e delle terre inquadrate da Luigi Ghirri, appena fuori o in lontananza rispetto alla via Emilia e al Po, negli stessi luoghi di Narratori delle pianure e Verso la foce:1 Celati legge il paesaggio ripreso dal fotografo come uno scenario aperto, un dimesso eppure, per chi legga in profondità, sontuoso insieme di fondali naturali intesi a creare un senso diffuso di bassa intensità, un languore spontaneo che dà vita, quasi per reticenza o diniego dinanzi alla rappresentabilità del mondo, alle fotografie sottotono di Ghirri.
La disponibilità del luogo a farsi cogliere richiede una controparte percettiva, meglio, contemplativa; essa consiste in un atteggiamento di intimo stupore, in un fare riserva delle emozioni, dello splendore che il naturale racchiude in sé. È questo sovrappiù di intensità, insito negli scenari originari, sovrappiù rispetto al chiuso dominio della consapevolezza a costituirne la fascinazione, la loro ontologica teatralità: in uno dei suoi scritti più estremi dell'ultimo ventennio, la postfazione a Fantastica visione di Giuliano Scabia (1992), Celati fa emergere, dalla lettura del testo teatrale, la necessità di vedere oltre la superficie, e di spingersi oltre il determinato, il già visto e l'ossessivo circolo vizioso della società dei consumi. Il percorso da compiere appare induttivo, dalla lettura del luogo, dalla natura e dal nostro sentirci parte di un senso più ampio, un senso comune, allo spettacolo della mente, al riprodursi dinamico di un moto percettivo che pone al centro la visione come intuizione di dati in simultaneità, immersione nel fluire di scene da un repertorio incessante di immagini:

«questo dramma serio-comico sembra spingerci verso un modo di comprensione in cui le immagini della mente possono essere accolte come esistenti, come parte e possibilità del mondo. Qui e altrove Scabia insiste che, perché vi sia teatro, è necessario vi sia questa apertura verso il possibile, questa disposizione ad accogliere un evento simile al sogno - l'evento della visione - come un bisogno della mente, vita che dipende dalle immagini della mente, e che perciò può dar naturalmente luogo al teatro».2

Perché vi sia teatro, devono mutare le nostre modalità relazionali di fronte al mondo conoscibile; apertura, accoglienza e possibilità sono tutti sintomi di una volontà ricettiva, di disponibilità verso un ripiegamento interiore che partecipa di quel misterico che Celati stesso evoca a proposito del teatro di Scabia; l'atteggiamento misurato di riserva che lo scrittore, a partire dalla sua svolta malinconica degli anni Ottanta, persegue, pare davvero consono al carattere dimesso e insieme iniziatico con il quale accostarsi alla pura vivezza delle immagini che si susseguono nel possibile scenico allestito dalla nostra mente. E, ha rilevato Silvana Tamiozzo Goldmann, l'idea di cerimoniale non è estranea al discorso celatiano sulla narrativa;3 presuppone un processo introduttivo alle forme del racconto, a una sostanza altrimenti inafferrabile se riassorbita nell'indistinto della chiacchiera quotidiana, di una socialità ansiosa che nega il tempo di un ascolto. Perché è nella disponibilità ad ascoltare che si realizza quel senso performativo che il racconto persegue, forma deputata a incantare, a imprimere in un determinato tempo il segno visibile di una forma, un senso vivo del comunicare (siamo ancora nel '92, in un seminario reggiano):

«La vivezza narrativa potrebbe essere descritta così: è qualcosa che ci dà il senso che momento per momento tutto cambia sotto i nostri occhi e sotto i nostri piedi; e questo perpetuo cambiare della cosa attorno a cui giriamo, è un'esperienza come guardare le nuvole, dove uno vede un leone e un altro un elefante. In una narrazione c'è un prima e un dopo, e il prima e il dopo sono come una direzionalità verso cui la narrazione punta: sono come le lancette dell'orologio che indicano sempre una cosa diversa. Tutto quello che ci rimane in mano d'una narrazione non è altro che il senso cangiante d'una atmosfera, d'una corrente d'aria a cui siamo rimasti esposti. Con ciò voglio dire che una narrazione è tempo nel tempo, perché attiene esattamente al momentaneo; dunque, posso dire una cosa in un certo momento e questa cosa ha una direzione, e poi posso ripetere la stessa cosa un momento dopo, e quella cosa ha un'altra direzione - cambia di senso, e cambia il tipo di luce gettato sul mondo».4

Il racconto partecipa dunque di questa idea visiva di rappresentazione mentale, intesa a coniugare un indefinito sentimento spaziale a precise nuances ottiche. Ancora, l'aria in cui siamo immersi in un determinato momento (come non ricordare le inquietanti Condizioni di luce sulla via Emilia, una tra le Quattro novelle sulle apparenze?), la direzione che il narrare, come gli eventi, come la vita prende, rimandano a un senso della durata già intravisto nel concludere e fissare nel passato un ricordo di Calvino, con lo sguardo rivolto all'epoca di Finzioni occidentali, i primi anni Settanta:

«Qualsiasi cosa facciamo comincia prima di noi, noi continuiamo uno svolgimento. In certi momenti c'è qualcosa nell'aria, che arriva come un suono, nel sentito dire in cui siamo immersi: e questi sono incontri avventurosi, o piccole forme di risveglio, o l'annuncio della nostra sorte».5

In questo succedersi di istanti si situa la coscienza del proprio scrivere: racconti, non romanzi, nel senso di una poetica dell'antimonumentale ipotizzata da Rebecca West (per l'autrice, alla domanda «What is a narrative?», la risposta di Celati: «modest, minimal even: a narrative is a way of organizing experience»);6 più o meno lunghe «narrazioni di voce», percezioni dell'esteriorità originate da «piccole attenzioni sparse», un trasporto verso il vedere «non più disgiunto dall'ascoltare»: di qui l'adesione alla forma breve, in grado di «produrre piccole meraviglie», tonalità minori del meraviglioso, quotidiane, vitali:

««però queste meraviglie, lo so benissimo, hanno qui un limite enorme che le condanna a essere delle minuzie. Il limite è che, mentre in Dante ci sono tante voci, c'è tutto un va e vieni di voci diverse, un insorgere di voci e suoni da tutte le parti, e dunque una musica, un cosmo, uno spazio pieno, nel mio caso tutto ciò si riduce a un'infinita miseria. E tutta quella ricchezza di voci si è ridotta nelle mie cose ad una piccola infinitesimale meraviglia: è come se uno fosse in una stanza, quando tutti sono andati via, e c'è rimasto solo uno di là, uno che telefona - e allora chi scrive si tiene in vita ascoltando quella voce».7

Nessun disorientamento spaziale dunque, se, arrivati al tempo nostro presente di Cinema naturale, ritroviamo la misura conchiusa della stanza a ribadire la minuzia della forma-racconto, l'esiguità di territorio destinata a chi attraverso il racconto stesso si ricrea tutto un mondo, nel quale, ancora una volta, sono l'occhio e l'udito a fluttuare insieme in uno stato di eccitazione e godimento: è l'immagine prominente nelle parole di presentazione retrospettiva che accompagnano il libro-cinematografo,

«(p)erché scrivendo o leggendo dei racconti si vedono paesaggi, si vedono figure, si sentono voci: è un cinema naturale della mente, e dopo non c'è più bisogno di andare a vedere i film di Hollywood».8

 

§ III. Non conclude Torna al sommario dell'articolo

II. Storie di un meraviglioso inerte

Non un cinema qualsiasi, questo della mente secondo Celati, ma il cinema che maggiormente ha plasmato il nostro immaginario contemporaneo, che ha tenuto in vita le speranze, ha riacceso lo stupore e un'immaginazione quasi infantile in tutti noi, a partire dal ragazzino Federico della Banda dei sospiri che intorno a sé, nel vissuto familiare, trasponeva storie hollywoodiane di melodrammatica passione nei personaggi della bionda Veronica Lake e dell'attore Alan Ladd; o, là dove il comico veniva diradandosi lasciando affiorare un amaro movimento introspettivo, il fare cinema come metafora della produzione fabulatoria, l'invito del primo finale di Lunario del paradiso al lettore, a farsi «delle storie», di fronte al reale narrato come «sputtanata verità», quello che, in una seconda versione contenuta nella sistemazione trilogica dei Parlamenti buffi, diventerà ancora più opaco, la vita come «una cosa che non assomiglia proprio a niente».9 L'impressione che, come per molte delle storie comprese dentro al novelliere delle pianure, si giunga a uno scioglimento statico, sospeso e dunque aporetico, in Cinema naturale perdura. Le immagini mentali che vengono proiettandosi nel narrato parlano ancora di solitudine, scacco, disillusione, resa. E, in termini di orecchio intratestuale, l'autobiografico e metapoetico Come sono sbarcato in America che inaugura la raccolta lascia intravvedere dietro a sé un altro momento di delusione, scoramento di fronte all'abbandono in una plaga del mondo renitente a qualsiasi tentativo di spiegazione. Il protagonista Giovanni, sbarcato in un dipartimento universitario pretenzioso, rimasto solo per il giorno del Ringraziamento, incompreso da tutti, incapace di comunicare e di mettere per iscritto le sue mirabolanti imprese ad uso degli amici rimasti a casa, sembra permanere nello stato di afasica incredulità che contraddistingue l'infanzia nell'anonimato periurbano dei Bambini pendolari che si sono perduti, tra i primi movimenti dei Narratori. Nel racconto più recente, il giovane esule sperimenta un supplizio di Tantalo da slapstick comedy un po' penosa:

«Con tante cose interessanti da dire, che forse poteva già lanciarsi nella carriera letteraria, scrivendo un volume sulla vita in America, guarda che situazione! Dopo un'ora di tentativi, con la macchina da scrivere trovata in una camera, aveva composto due frasi incomprensibili, per tutti i tasti sbagliati che gli capitavano sempre sotto le dita.
Gli è venuta la stanchezza massima, lo scoraggiamento sul suo futuro, con anche il sudore alla fronte per quella lettera che non veniva fuori» (CN, 13).

Eppure, nonostante le difficoltà del suo inserirsi nella vita adulta, i suoi sforzi non sono così lontani da quelli dei disambientati, scettici bimbetti in periferia, che dopo vari tentativi di comprendere la noiosa natura umana, vedono avvolgersi il senso finale del racconto intorno a loro e alle architetture minacciose che li cingono, su di uno sgomentevole presagio:

«Allora è venuto loro il sospetto che la vita potesse essere tutta così».10

Le due posizioni scoraggiate convergono nel senso sincronico del rappresentarsi l'avvenire, al di là del grigiore sussistente e della malinconia dell'oggi; un rassegnato disegno profana il senso di attesa che intesse entrambi i racconti, precludendo uno sviluppo progressivo, una destinazione. Non ci si stupirà allora se, dopo un racconto inesausto di tutte le sue avventure, successivo all'incontro salvifico con un verosimile professor Biasin e con sua moglie, che molto da vicino ricorda la lunga chiacchierata dopo mesi di assoluto silenzio da parte di Baratto (ancora nelle Quattro novelle), la partita doppia del racconto di base - la storia di Giovanni - e dal racconto sul raccontare o sull'impossibilità di farlo, si arresti nel vuoto del significato, nella riduzione delle molteplici ipotesi di descrizione alla semplice denotazione, al riassorbimento del meraviglioso, dell'inaudito ancora presente all'immaginazione del giovane entro la banalità di una resa comunicativa:

«Avrà parlato per circa dodici ore, senza fermarsi, ascoltato sempre gentilmente, finché è tornato alla sua casa di legno, ed era ubriaco di parole, perché aveva vissuto in un vero romanzo. E dopo si era dimenticato che doveva scrivere la lettera, l'idea non gli sfiorava più neanche il cervello. La sua testa gli si era svuotata di tutto. Tutti i suoi resti e avanzi li aveva sputati fuori, tutte le incertezze erano sparite, più niente da scrivere a nessuno. L'indomani ha mandato un telegramma ai suoi genitori: "Sono arrivato"» (CN, 23).

 

§ VI. Udire, a distanza Torna al sommario dell'articolo

III. Non conclude

Andrea Cortellessa ha puntualizzato giustamente che il Cinema tutto di Celati è costruito sulla strategia duplice di racconto, quello, si potrebbe dire, messo in atto da un'istanza ab alto che ordina le sette storie per mezzo di narratori delegati, e quello virtuale, nel mezzo del quale i personaggi vengono rappresentati e dotati di uno statuto identitario grazie al loro costituirsi in soggetto narrante e materia narrata; «l'impressione che i personaggi vivano ogni loro esperienza solo in quanto già prefigurano quel suo doppio larvale che è la narrazione relativa»:11 essi ci appaiono intenti a trovare le parole come Giovanni in America o a raccontare una storia, come il narratore di Storia di una modella, assoldato in America dall'assicuratore Baruch (nomen omen) per scoprire le cause dell'esaurimento nervoso della misteriosa Armanda, seguendo il corso di continue interrogazioni o obiezioni da parte di un interlocutore generico. La fine della novella esemplifica questo rinvio continuo a una spiegazione, a un tentativo di precisare i contorni dei fatti, fino a un quadro di possibilità eccedente il verosimile narrato, verso una zona prediletta da Celati, quella dell'indeterminato:

«Da giovane parlavo molto e mi piaceva affrontare anche questi problemi. Quali problemi? Sai, il problema del giudizio estremo, con le nostre anime là che aspettano molto stanche su una sedia, e i giudici schierati a decidere cosa abbiamo combinato alla fin fine, dopo aver sprecato tanto fiato per darci ragione» (CN, 163, [corsivo mio]).

La disponibilità della forma breve comprende la possibilità di strutturarsi per inserzioni dialogiche, mediante il differimento della volontà progettuale del narratore incaricato, per poi perdersi in zone come questa dove gli eventi narrati si situano in lontananza, imparentandosi ambiguamente con l'immagine del giudizio finale: o il breve racconto della modella d'alta moda perde completamente peso di fronte al tribunale supremo («Per il resto la storia della modella si può riassumere in poche parole: prima lei era sulla cresta dell'onda e dopo è scoppiata, almeno quel tanto che basta per buttarsi via», CN, 144), oppure il quadro definitivo viene mitigato dalle tinte tutte umane del consesso di giudici, dal legame profondo che, in un contesto già interessato da un rimando a Cacciaguida (e, prima ancora, è il narratore a leggere Dante al dentista Fuzzi, facoltoso amico della modella), le anime spossate, «lasse» intrattengono con la vita e con i giudizi terreni che ricordano da vicino questo finale. Dissimulato in toni di quotidianità e ironia, il rimando dantesco ispessisce la radicalità della questione metadiscorsiva al fondo del racconto, suggerendo in limine un problema di rappresentazione, di una soglia del dicibile (prima ancora, immaginabile) e di quanto possa essere differito il senso dell'inchiesta, ossia oltre i confini della forma breve comunemente intesa (con un atteso dénouement) e delle «frasi regolamentari».

 

§ V. Nec babilonios temptaris numeros Torna al sommario dell'articolo

IV. Udire, a distanza

Gli altri due racconti su cui intendo soffermarmi tematizzano l'inganno della percezione, la distorta suggestione esercitata da una voce lontana: dall'ascolto a distanza prende vita una nuova inchiesta; si inaugura uno spazio per l'avventuroso che rompe con la monotonia del quotidiano e produce la «piccola meraviglia» a cui Celati fa riferimento. Le direzioni sono però diverse: in Nella nebbia e nel sonno, il narratore ci racconta di essere venuto in possesso di una serie di nastri, registrazioni di telefonate interminabili da parte di una donna profondamente sola, Alida, a un amico oramai morto. L'avventura coinvolge l'uomo suo malgrado, intrappolandolo in monologhi notturni da parte dell'interlocutrice, introdotti da «Mi puoi ascoltare?» e protratti attraverso «Non farmi domande, ascoltami», dal momento del loro incontro (la donna vive al piano inferiore, e «aveva preso l'abitudine di salire dal mio amico per fare delle chiacchiere»), fino al trasferimento oltre l'Atlantico dell'uomo, inesorabilmente raggiunto alle tre di notte dallo squillo del telefono (ancora, l'America, qui non già sito dell'Altro, luogo di capovolgimenti del senso e dell'esistenza, come per Giovanni e ancora per Armanda e il narratore di Storia di una modella, ma prosecuzione spaziale dell'avventura, ritorno uguale di situazioni che varcano distanze immense). In mezzo all'artificio della conversazione "bianca" - il contenuto dei nastri sembra basarsi sulla ripetizione ad infinitum; nel racconto si avverte una sorta di rumore di fondo continuo - il narratore scorge segni notevoli: sogni e visioni di Alida, immagini di polveri, nevi, nebbie e muffe, che dal suo cinema mentale emergono per riscrivere in maniera orrorosa il mondo circostante:

«Comincia un altro periodo, quando lei sognava che sotto i marciapiedi ci fosse un'erosione e tutto stesse per sprofondare in una polvere bianca, che forse non era neanche farina, ma una polvere come quella dei soffioni boraciferi […]. Certe notti, nei nastri registrati, ho ascoltato i racconti di Alida su un mondo tutto bianco, sui soffioni boraciferi che tra poco cominceranno a venir fuori da sottoterra, coprendo il grigio e gli altri colori» (CN, 51-52).

I paesaggi grigi del libro, quello della cittadina di economia avanzata di Non c'è più paradiso come le fabbriche in rovina e i tuguri di Notizie ai naviganti, tentennano sulla soglia di apparizioni impreviste, subiscono trasfigurazioni verso l'accoglimento di inserti metafisici: era già così per Narratori delle pianure ed è così per un libro di racconti molto apprezzato da Celati, Silenzio in Emilia di Daniele Benati, dove a una certa riconoscibilità dell'elemento locale segue immediata la confusione del luogo stesso in una sacca fantasmatica, in uno spazio altro dove le leggi della realtà e del quotidiano vengono assorbite e obliterate. È quanto accade con la visione che conclude il racconto (per inciso, non si sa che fine attenda il rapporto a distanza tra l'amico del narratore e la donna), nella certezza paradossale di un trovarsi confusionale, di una comunicazione più riposta e affrancata dall'egoismo paralizzante, eppure dai toni indistinti:

«Ad ogni modo io sono convinto che quando si è addormentati ci si capisca meglio: non c'è più la furia dell'intelligenza per mettersi al di sopra degli altri, e allora certe volte si riesce a incrociare i pensieri, senza essere più estranei come al solito. Alida aveva fatto il sogno di una polvere bianca, che rendeva le case e gli individui poco distinguibili, per cui ogni tanto qualcuno sbagliava porta, e dopo abitava un po' con una donna che non era sua moglie, o con un uomo che non era suo marito, poi sbagliava di nuovo porta e via di seguito, tutti sempre un po' addormentati sotto la coltre di polvere bianca. Le parole fuggono via nella nebbia e nel sonno, sfuggono ai giorni e agli anni, non si sa dove, ma è lì che poi ci si incontra, come dice un'altra canzone nei nastri» (CN, 59, [corsivo mio]).

 

§ VI. Fine/i Torna al sommario dell'articolo

V. Nec babilonios temptaris numeros

Il motivo delle parole difficili, riconducibile al più ampio tema del raccontare tentativi di racconto, si incrocia così, come i pensieri degli individui grigi che popolano il racconto, all'altro grande tema dal novelliere delle pianure in avanti, la riflessione sui legami sociali (o, per converso, sulla loro impossibilità). Su tale motivo mi pare insista più marcatamente Notizie ai naviganti: la folle rincorsa del medico verso voci captate nell'aria, tali «da lasciarlo trasognato in ascolto», sembra irridere la capacità di staccarci da quel senso comune in cui siamo immersi, e mettere in risalto un valore discorsivo, meglio, fabulatorio, dell'essere assieme, che Celati, in una lettera aperta a un professore di scuola media che ha raccolto i raccontini dei suoi allievi, dice di avvistare nelle chiacchiere da bar:

«nei bar hai anche una percezione, che di solito ti sfugge, quando stai chiuso nella tua stanza. Hai la percezione che tutto il mondo esterno non sia altro che un infinito sentito dire. Cos'è l'America, cos'è stata l'ultima guerra mondiale, cosa sono i giocatori di calcio, cosa sono i "problemi sociali" e tutto quello che è nominabile al mondo? È tutto un mare di sentito dire.
In realtà questo è un mare dove nuotiamo tutti […]».12

Il dottore del racconto partecipa di questo smarrimento nel mare magnum del nominabile, del senso comune, attraverso una personale incarnazione di questo pervasivo "sentito dire", una distorsione del senso percettivo in atto. Sono le voci che, a una ventina di chilometri, entrano nell'aria e giungono al mare: lo stesso movimento uditivo segna un percorso poetico, di innamoramento de lonh e di agnizione, relativa alla propria cecità: la falsa tranquillità della propria vita coniugale e familiare, i colleghi medici arrivisti e un «primario vanesio» che accarezza l'idea di possedere un intero paese in cima a una collina. Queste ultime figure appaiono in buona compagnia, nella raccolta, insieme all'«intrampano universitario», compagno di Alida in Nella nebbia e nel sonno, che accumula polverose fotocopie nell'illusione di scalare posizioni accademiche, di fianco allo studente obeso che cerca di ingraziarsi i due Enrico sperduti a Ginevra per ottenere dal loro maestro «un giudizio favorevole, anche una sola frase da mettere in copertina» al suo libro (Novella dei due studenti, CN, 84), o ancora, accanto alle reciproche accuse di carrierismo che il funzionario televisivo e la cardiologa della piccola cittadina di economia avanzata di Non c'è più paradiso si scambiano, per non parlare del professor Paponio, guaritore miracoloso dall'alto del suo Centro di Medicina Africana nella ripresa di Avventure in Africa che conclude il libro, Cevenini e Ridolfi. Sono personaggi-indicatori, segnali di un funzionamento arrestatosi, della vita, per parafrasare ancora un luogo di Narratori delle pianure, come non dovrebbe essere. Rientrando nei termini della novella e delle sue voci lontane, l'effetto di favola è come sancito da una diretta appartenenza dei discorsi uditi a un destino avventuroso, a un immediato travaso della parola fortuitamente incontrata entro un territorio altro (prosegue Celati nella sua lettera):

«le parole parlano sempre di qualcosa di ipotetico, di immaginario, leggendario, favolistico. José Bergamín, filosofo spagnolo, diceva che "favellare vuol dire favolare". Le parole si portano dietro tutte le favole sul mondo, semplicemente perché sono fiati che vanno di bocca in bocca, cioè vaghezze, panzane, travisamenti, menzogne, oppure ipotesi su quel "fuori" di noi dove tutto si disperde all'infinito».13

Molte sarebbero, a questo punto, le considerazioni sulle qualità linguistiche delle parole che ingannano lo sventurato dottore, dai lamenti uditi in mare ai consulti con figure di grande efficacia comica, come la chiromante Egle e la cartomante signora Marilù, prefigurazioni di una sognata Sibilla delle montagne, al linguaggio non verbale dell'imposizione che le due donne dialoganti da lontano, una volta forse identificate nell'indolente gigantessa Milena e nella madre in gramaglie, esprimono, sino all'autocoscienza dell'uomo: «Mentre erano nello stanzone, con la lampada a petrolio appoggiata al pavimento che spandeva una luce fioca in mezzo alle ombre, il dottore dice che ha capito di essere schiavo» (CN, 138); il miraggio percettivo destina qui, per amaro contrappasso rispetto alla sua innata volontà di aiutare il prossimo, una prigionia nella progressiva catabasi (in un inferno post-industriale). Ed è eloquente, come lo era nelle narrazioni padane, il paesaggio attraversato: «In quella campagna non ci sono consolazioni, non c'è niente da aspettarsi» (CN, 140); le rovine che punteggiano il quadro della narrazione fanno coincidere la sospensione delle aspettative per il personaggio con quelle che riguardano il dato paesaggistico. Non intervenisse un amico a salvare il dottore febbricitante, perderemmo lo stacco conclusivo rispetto alle vicende, la svolta verso, nuovamente, un'indeterminazione limpida, nella quale si ritorna al linguaggio marino dell'esordio, dove si confonde la sorte presente in un più ampio - ma non meno critico - disegno naturale delle cose:

«Ma io non so poi cosa sia il meglio, forse è un errore come tanti altri, come le altre chimere a cui si corre dietro. Fortissime mareggiate lungo la costa sono annunciate dalla radio, che l'amico ha ora acceso. Si sente il vento ululare forte, scuotendo i pali della luce, mentre si attende un uragano che viene dall'oceano o da chissà dove, poco importa. Intorno è come un deserto, ma un deserto grigio d'asfalto, tra sfilate di villette per le vacanze, attrezzature balneari e luoghi di ritrovo popolati soltanto d'estate. Si ha l'impressione di un pianeta disabitato, con insegne commerciali che ci guardano passare, scosse dal vento. Dalla radio una voce, che sembra l'ultima voce da terra, sta trasmettendo notizie ai naviganti» (CN, 142-143).

Tutto un mondo che popolava Narratori delle pianure e Verso la foce si arresta qui, in un montaliano «lampo che candisce», di fronte a inquadrature per stacchi successivi su una terra che appare sempre più piccola e remota, sospesa in un'impressione di post-paesaggio animato solo da un'ambigua «ultima voce da terra»: si direbbe che le possibilità di racconto, di favellare/favolare terminino nel momento (nel luogo) in cui le possibilità dello stesso genere umano si esauriscono.

 

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VI. Fine/i

Mi accorgo qui che le citazioni testuali attinte ai finali di racconto sono ampiamente dominanti: in una trattazione che dalla questione della forma-racconto prende avvio, va osservato come nel libro la forma stessa garantisca alle conclusioni un carattere provvisorio, singoli viraggi verso una sospensione plurima, in una maniera che il romanzo, deputato salvo eccezioni a uno e uno solo di scioglimenti, non può prevedere. In maniera ormai laterale (disincantata, rinunciataria) rispetto alle zone di intensificazione degli accadimenti, quelli che nella terminologia di Franco Moretti sono definiti nuclei, le conclusioni rilanciano le sorti del personaggio all'interno di un più vasto quadro di filosofia naturale, nei modi constativi di un signor Palomar, per riaffermare la piccolezza, la finitezza di quel senso meraviglioso che altrove non si potrebbe concentrare. Sono arresti in progress, microconclusioni incamminate verso un territorio aperto, quello che delimitava la terra di nessuno di Giovani umani in fuga, il confine-foce al termine del racconto e del sistema a racconti delle pianure tutto, oppure quello che ritrovano con tocchi somiglianti, in altra terra, altri esseri dislocati, al centro della Novella dei due studenti:14

«Allora hanno scavalcato un cancello, si sono messi a camminare senza più direzione. Sulla sponda opposta del fiume si innalzava una muraglia di palazzoni moderni, come ammonticchiati uno sopra l'altro fino a chiudere l'orizzonte. Sul lungofiume là davanti, una superficie specchiante presentava l'immensa insegna d'una banca svizzera» (CN, 104).

O anche, l'explicit giunge a riportarci al discorso sulla fabulazione: il tentativo di narrare il proprio passato da parte del detenuto Da Ponte ai compagni, nella scrittura di un Poema pastorale («si diceva che quello era l'effetto pastorale della vita, che faceva ronzare tutti dappertutto come le mosche intorno alle briciole di torta, finché si muore», CN, 78), viene ricompreso dentro al senso naturale e alla misura minima dell'esistenza:

«L'unico rimpianto che aveva Da Ponte era di non aver scritto il suo poema pastorale in versi, perché allora sarebbe stato un vero poema, mentre a scriverlo così come gli veniva era andata a finire che tutte quelle pagine gli sembravano della carta straccia da buttar via. Erano come gli orbitamenti nella valletta, con tutti quegli urli e spasimi di notte e pensieri da pazzi di giorno, che non si capiva a cosa fossero serviti, tranne forse trovando qualcuno che facesse un riassunto per dire che anche quelle erano cose successe nell'universo infinito» (CN, 80).

Bisogna spiegare che uno dei primi pensieri della vita «là fuori» che raggiungono Da Ponte è rappresentato dal ricordo materno:

«quando vedeva sua madre da lontano attraverso una finestra gli veniva l'idea che tutto il resto delle cose girasse intorno a lei, in orbita come i pianeti» (CN, 62).

L'immagine di un «orbitamento pastorale infinito», sorta di riflettore naturale sul personaggio, torna, si è visto, nel finale a segnare la contiguità tra mondo reale e mondo narrato, a riprendere dentro a un cosmo pensoso le nature umane e le pagine precarie del vissuto. Un poema come ininterrotta analessi, ripensamento filmico delle pieghe della vita come lo scorrere via di scene nel mulinello del tempo, o infine, come quadri di teatro, che il detenuto Marmottini così spiega, a ribadire la valenza metaforica e non dell'insegna sotto la quale leggiamo il libro:

«Come quando lui lavorava in teatro: "Tante scene, con quella che piange e l'altro che grida, ma stringi stringi, è solo spettacolo e fumo negli occhi, poi dopo però il cervello chissà cosa ti fa vedere"» (CN, 76).

 

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Bollettino '900 - Electronic Newsletter of '900 Italian Literature - © 2002-2003

Giugno-dicembre 2002, n. 1-2