I racconti di Dmitri Bakin: il ritorno possibile*
di Simona De Pascalis

 

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«Nei racconti di Bakin c'è proprio tutto quello che ha reso grande la Russia: esaltandola, umiliandola, precipitandola nei baratri più inimmaginabili, gettando i semi per una sempre possibile e sempre procastinata resurrezione».
Viktor Pelevin, 1976

Scrittore semisconosciuto anche in patria, Dmitri Bakin è una delle tante sorprese della letteratura russa di questi anni: poco più che trentenne, ha interrotto gli studi molto presto e ora lavora a Mosca come taxista. La pubblicazione della prima e unica raccolta di racconti, Terra d'origine, nell'edizione francese del 1994, rivela subito il suo talento originalissimo e per nulla ordinario nel quadro della letteratura contemporanea. Pochi anni dopo, sulla rivista «Znamia», escono altri due racconti, per uno dei quali Bakin riceve il premio "Antibuker '96" come migliore prosatore dell'anno.1

Una scrittura fresca, essenziale, immediata, non appesantita da similitudini superflue o descrizioni, dove lo spazio che circonda il soggetto non viene pensato ma sentito, percepito attraverso gli odori, i colori, i suoni, il contatto con la pelle: il corpo è il vero tramite tra il personaggio e il mondo esterno, perchè l'uomo di Bakin è un aborto involontario dal «freddo immutabile della terra», impregnato dell'«odore di una feroce umidità» portata dal vento, col viso indurito dal sole e ricoperto della «cera del silenzio», con gli occhi gialli che «animano i sogni di una luce pallida, color limone, la luce degli incendi».
Nel testo si mette in atto una sorta di "oggettivizzazione" degli stati d'animo attraverso la metafora, tanto semplice e sconcertante quanto lo sguardo di un bambino sul mondo: «Per una frazione di secondo gli occhi puntarono Bedolaghin, ma poi lo sguardo cominciò a scorrere lontano, come se nel fiume avessero gettato una selce, sperando con quella di sbarrargli l'accesso all'oceano». Ma questa semplicità, sconcertante perchè ci coglie di sorpresa ed entra nel profondo, è data anche dalla stessa struttura sintattica del discorso, ridotto a brevi frasi spezzate, che si susseguono l'una nell'altra, come in una matrëška impazzita, dall'esterno verso l'interno, dal più grande al più piccolo e viceversa, in un gioco di rimandi e ripetizioni continue, che ci fan tornare indietro e poi balzare bruscamente in avanti, verso qualcosa di nuovo che pur contiene in sé il vecchio. L'attenzione del lettore si sposta lungo i diversi piani del testo, in cui il mondo esterno si confonde con quello intimo della coscienza, a tal punto da arrivare a percepirlo come la sola realtà esistente.
I protagonisti dei racconti presentano peraltro delle caratteristiche comuni, e li si potrebbe facilmente concepire come diverse varianti del medesimo personaggio. Bedolaghin, Krajnov, Baskakov, Šadrin, Ratalov e gli altri sono legati dalla stessa estenuante ricerca di una «terra d'origine» perduta, come nel racconto che dà il nome alla raccolta: tutti uomini-orfani che hanno dovuto lasciare il loro paese, e per una qualche ignara ragione sono stati esiliati in questa realtà, vissuta come un corpo estraneo ed ostile. «Dalla vita precedente gli era rimasto un ronzio nelle orecchie…quel ronzio eterno e cantilenante con cui il vento spazza via l'immondizia e i peccati di un mondo privato del silenzio assoluto»: l'uomo bakiniano arriva in questo mondo vestito di stracci, con i piedi scalzi e portando con sé soltanto il peso del ricordo, l'ossessione di una mancanza, come un ronzio nelle orecchie, continuo e assordante, come il macigno di un'eredità che si è abbattuta su di lui fin dalla nascita. Il solo modo per porre fine al tormento della propria coscienza mutilata è mettersi alla ricerca della strada perduta, la strada che conduce da qualche parte "a casa", nascosta nelle infinite pieghe della realtà, smarrita tra le moltitudini di strade analoghe che conducono in altre direzioni. Ma come riuscire a difendersi dal caos, se non erigendo dei muri che ci proteggano dall'ambiente esterno, delimitando i confini del proprio mondo «come un'archeologo che viaggia servendosi di una cartina geografica, decifrando ostinatamente i segni, cercando le note che indicassero una malattia del cuore»? Un micromondo che diventa così scomponibile in coppie di opposti: proprio-estraneo, individuale-sociale, amico-nemico. C'è allora chi, come Bedolaghin (Foglie), si chiude nel proprio isolamento «cercando di raggiungere l'immobilità e il silenzio»; chi, come Krajnov (L'agrimensore), vive in un piccolo regno familiare dove può esercitare un potere tirannico e sfogare «la sua eterna, maligna insoddisfazione»; c'è il personaggio di Difesa armata, che trasforma la propria abitazione in un bunker per difendersi dall'attacco di nemici inesistenti; c'è il protagonista di Terra d'origine, che rimane per ore ad osservare un foglio lacero dove è tracciata la sua genealogia, «con la sensazione che prova un uomo che guarda in un binocolo tenendolo al contrario»; c'è Baskakov (Ragione di vivere), «tenace, ostile, silenzioso, come un chiodo piantato a metà», che ha come unico scopo la costruzione di una casa dove far vivere la moglie e la figlia; e ci sono infine Šadrin e Ratalov (Il colmo dei colmi), che viaggiano su un convoglio ferroviario diretto verso una meta sconosciuta.
Distinguendone più dettagliatamente i lineamenti del viso, ci si accorge che tutti questi uomini possiedono delle caratteristiche uniche, straordinarie, quasi ultraterrene nel loro definirsi rispetto all'ambiente. Una diversità percepita anche dagli altri personaggi, che avvertono in loro delle forze oscure e impenetrabili, come «correnti gelide» emanate dal corpo e che si espandono intorno a quanto li circonda. Uno di loro, che sembra aver capito la natura intima di questa diversità, è il pittore Pal del racconto Foglie: un personaggio-chiave, per così dire, che ricorre più volte in altri racconti, solo per pochi istanti, quasi a voler riconfermare il legame profondo che unisce le diverse storie, come nel decalogo kieslowskiano la comparsa improvvisa di un osservatore onnipresente. Nella speranza di guadagnarsi da vivere, il pittore Pal decide di dipingere delle tele con le immagini dei santi, per dare di nuovo vita alla chiesa del borgo distrutta dai combattimenti. L'iconografo, «che non sapeva e non desiderava saper disegnare su carta i volti umani che, secondo lui, erano molto meno preziosi dello sforzo che ci voleva per rappresentarli», nota tuttavia nel viso di Bedolaghin «una certa docilità cadaverica, ecclesiastica, la mitezza di chi perdona tutto e, negli occhi, i segni di un'inevitabile rovina». Nel suo viso il pittore scopre forse l'immagine stessa di Cristo, ma su questo l'autore preferisce lasciarci nell'ambiguo. Pal inizia smaniosamente a ritrarlo, ma avverte subito il potere di un'altro mondo proveniente dal modello, una forza che non riuscirà ad afferrare mai del tutto, nonostante i tentativi, e il suo ultimo lavoro rimarrà per sempre incompiuto.
Accanto al pittore, nei racconti di Bakin, c'è pure un'altra fortissima presenza che avverte questo mistero ma che, a differenza di lui, riesce a comprenderlo e a governarlo: sono le figure femminili che circondano gli uomini sperduti, e li proteggono e li salvano dalla vita e dal suo potere distruttivo. Le donne incutono loro timore e soggezione, vivono in una dimensione che è fuori del tempo e non sono condannate, come gli uomini, alla vana ricerca di una "terra d'origine": «nessuno osò avvicinarsi a lei, temendo che si sarebbe polverizzata come un vaso antico poggiato da secoli sul fondo dell'oceano, in un angolo immobile di acqua, sale e tempo, e la salutarono soltanto con gli occhi, come si saluta un miraggio». Le donne arrivano nella notte, inaspettatamente, «calpestando e facendo scricchiolare l'assenzio rinsecchito» di una vita che sta riducendosi in polvere; sempre le donne si incamminano lungo la strada alla ricerca di cibo, e «dissolvendosi nell'aria» fanno sprofondare gli uomini nella disperazione: il loro ritorno è la vita che si rigenera, «il fuoco infernale di un amore senza freni» capace di sciogliere il guscio di ghiaccio, la loro bellezza è il grembo accogliente della Madre-di-Tutti-i-Figli, che accetta il dolore e l'inevitabilità della morte. Così scrive a questo proposito Raffaella Faggionato: «La vera vittoria, la dimensione dell'eternità a cui aspirano gli uomini-bambini, non è conquistata, ma è propria da sempre all'inconsapevole mondo naturale in cui sono immerse le donne. Non frutto di progetto, che è sempre un atto violento, un "volo" che allontana dalla solida madre-terra. Non da ricercarsi nel passato o nel futuro, che appartengono entrambi alla dimensione temporale della lotta e della conquista; ma nell'accettazione attiva, potremmo dire con Nieztsche, dell'eterno ritorno dell'uguale».2

Nell'ultimo racconto, il cerchio finalmente si chiude: collocato alla fine della raccolta, Logoftalmo è significativo non solo per la conclusione a cui sembra giungere l'uomo bakiniano, ma anche per alcune scelte stilistiche dell'autore. Si tratta infatti dell'unico racconto scritto in prima persona, dove ascoltiamo la voce di un narratore che per la prima volta ci parla di sé: questo Io-Senzanome ha capito infatti che il vero nemico risiede all'interno di se stesso, e la sua rabbia nei confronti della vita e di questa «moltitudine silenziosa», porta solo all'isolamento e alla solitudine. Qui il nostro eroe incontra per la prima volta un uomo, il soldato Venskij, che mette in discussione il suo mondo: «una vita dominata da un fiuto infallibile che costringeva i piedi a camminare lì dove la terra non si sarebbe mai spaccata, che spingeva il corpo a passare al largo di migliaia di morti e di vite ubriache, che faceva chiudere gli occhi lì dove si perde la vista, che faceva abbandonare il punto in cui qualsiasi altra persona sarebbe rimasta schiacciata da un albero cadente: il calcolo preciso e sicuro di un istinto antico, che confermava in quell'uomo una fiducia cieca e morbosa nel valore incomparabile della propria vita e in un talento in grado di creare il massimo». Come l'idiota dostoevskiano, Venskij osserva e capisce tutto, e sembra provare compassione per lui (la compassione del principe Myskin). Ma egli lo odia e sfugge il suo sguardo: in questo modo, infatti, Venskij mette a nudo il dolore profondo che lo consuma e che l'uomo bakiniano rifiuta di riconoscere a se stesso. La sua, in fondo, è solo paura, e tutto alla fine si risolve nella morte, che è l'unica vera liberazione possibile da questa condanna al movimento. La morte di cui la vita è una semplice, breve interruzione, come un sogno che ti sorprende all'improvviso. Il titolo stesso del racconto sembra alludere a questa estrema consapevolezza: "logoftalmo" è infatti colui che non può chiudere completamente gli occhi, così come il protagonista, che arriva a confondere la realtà con il sogno. «Io vi dico, non serve che mi portiate da nessuna parte. Il movimento ha senso per voi. Per me ha senso l'immobilità…Da tempo viene verso di me per una strada grigia, con passo leggero e silenzioso come la cenere che si deposita. Non toccatemi. Voglio vedere». Chiusi definitivamente gli occhi, finito il sogno dunque, la terra d'origine è finalmente raggiunta.

 

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Bollettino '900 - Electronic Newsletter of '900 Italian Literature - © 2002-2003

Giugno-dicembre 2002, n. 1-2